Investment compact: si rischia l’ennesimo regalo insensato e inaccettabile all’IIT
Renzi umilia gli enti e le università e conferma di non aver capito nulla della Silicon Valley.
Renzi è tornato dalla Silicon Valley e non ha capito nulla. Ne abbiamo l’ennesima conferma dalla norma inserita, e poi smentita nell’investment compact, il decreto dedicato alle piccole e medie imprese e alle start up innovative, in cui si prevede che l’istituto italiano di tecnologia (IIT) sia incaricato della commercializzazione dei prodotti tecnologici e dei brevetti delle università e degli enti di ricerca. Ciò includerebbe l’obbligo per gli enti di ricerca e la possibilità per le università di fornire tutte le informazioni necessarie a svolgere questo scopo.
Sono molte le osservazioni che si possono fare in merito a questa bislacca idea. Per ora e confidando in un sussulto di dignità da parte del governo ci limiteremo solo ad alcune.
La prima è che è inaccettabile sotto ogni profilo una subalternità degli enti di ricerca e delle università alla fondazione di diritto privato IIT rispetto ad una finalità, quella dell’innovazione tecnologica che per molti è parte della missione istituzionale, come per qualunque altro aspetto della loro attività. Per gli enti di ricerca in particolare non si ipotizza infatti una collaborazione o una convenzione ma una sorta di commissariamento implicito. La seconda osservazione riguarda l’assurdità in sè della proposta. Per quale ragione un ente o un ateneo dovrebbero consegnare un prodotto finito o un brevetto ad un soggetto terzo al fine della commercializzazione quando esistono specifici uffici dedicati a questo tipo di attività all’interno delle amministrazioni? Dove sarebbe il vantaggio? Se il prodotto ha già conosciuto un sviluppo avanzato ed una sperimentazione quale sarebbe il ruolo dell’IIT? Piazzista? Oppure beneficia del consueto privilegio che lo accompagna dalla sua istituzione per cui ora bisogna trovargli un ruolo nuovo?
La terza è di ordine più generale e attiene all’idea di fondo che caratterizza anche questo provvedimento, figlia di un’analisi sbagliata dei limiti del nostro sistema produttivo e delle necessità della ricerca pubblica affinché possa assolvere al meglio la sua funzione sociale di cui è parte ma non tutto l’innovazione tecnologica. Questa organizzazione all’indomani dell’annunciata, ennesima, riforma degli enti pubblici di ricerca ha avanzato precise proposte al governo, tra cui quella di affrontare seriamente il nodo dell’innovazione tecnologica attraverso un investimento dello stato sul modello degli istituti Frahaunhofer.
Non solo quello del governo è stato l’ennesimo annuncio al quale non è seguito nulla ma, peggio, nella finanziaria ci siamo trovati di fronte alla solita ricetta di tagli e accorpamenti condita da una ingente quantità di risorse per incentivi alle aziende su ricerca e sviluppo.
L’utilità effettiva di questi ultimi è da tempo messa in discussione così come è crollato il mito dei fondi distribuiti o meglio polverizzati per le start up come si sforza di spiegare Marianna Mazzucato.
Senza considerare ciò che dovrebbe essere ormai ovvio: il problema della scarsa innovazione non risiede in una offerta ridotta da parte della scienza o in difficoltà di commercializzazione, ma in una domanda cronicamente insufficiente da parte delle nostre aziende che da anni sono posizionate su filiere a basso valore aggiunto, non producono tecnologia e anzi sono costrette ad importarla. Tutto ciò ha effetti sulla qualità del lavoro e sui salari. Altro che la favola che i nostri laureati e dottori di ricerca non trovano lavoro per colpa del loro profilo professionale.
In particolare nel nostro Paese solo con grandi investimenti pubblici diretti in infrastrutture tecnologiche, dentro una nuova politica industriale, si può produrre innovazione oltre a costruire anche un contesto favorevole ad un certo tipo di IDE (investimenti diretti esteri).
Peraltro sempre di più, le imprese che investono in tecnologia hanno bisogno di un sistema di infrastrutture di ricerca per sviluppare le fasi del prodotto ad alta intensità di conoscenza, ma hanno bisogno anche di scuole pubbliche e centri professionali in grado di formare il personale a diversi livelli.
Soprattutto però solo finanziando la scienza fondamentale saranno possibili anche i salti tecnologici del domani e nuovi passi avanti per l’umanità proprio quello che l’Europa sta facendo sempre di meno.
Con questo ennesimo decreto legge il governo prosegue ostinatamente in una direzione sbagliata e umilia gli enti di ricerca e le università.
Se questo deve essere l’anno della ricerca per smantellarla definitivamente facciamo in modo che non gli risulti facile.