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Il 2014 si chiude lasciandoci in eredità un sistema universitario in progressivo declino

Fondo di funzionamento ordinario, punti organico, costo standard, milleproroghe, jobs act.

09/01/2015
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La fine del 2104 ha visto la pubblicazione, in estremo ritardo, di una serie impressionante di provvedimenti che si sarebbe dovuto emanare, invece, in tempi distesi e in base ad una attenta programmazione degli interventi. Da tempo la politica universitaria è fatta “in fretta e furia”, con provvedimenti presi ben oltre i termini – sebbene mai perentori – di legge, e a dispetto di qualsiasi ragionevole tempistica. Basti pensare che ancora una volta le Università hanno conosciuto solo a fine dicembre le risorse economiche a loro dovute per l’anno in chiusura. Se si dovessero applicare al ministero gli stessi criteri di virtuosità programmatoria che si richiedono agli atenei italiani, questo governo (e i passati) sarebbero bocciati “a libretto”.

Alle disposizione previste dalla legge di stabilità approvate dopo forti critiche hanno fatto seguito la pubblicazione delle tabelle relative alla distribuzione del fondo di funzionamento ordinario, quindi dei punti organico, in ultimo la proroga dei termini di vigenza di alcuni provvedimenti disposti dal cosiddetto “mille-proroghe”. A voler tirare le somme del 2014 c’è nulla di cui gioire.

Dopo un decennio di sotto-finanziamento che ha ridotto le risorse economiche al sistema universitario di quasi due miliardi di euro, dopo un drastico ridimensionamento del turn-over che dura dal 2008 e che ha ridotto di 1/5 il personale universitario, la proroga a tutto il 2015 del blocco delle retribuzioni ormai ferme dal 2009, i risultati sono evidenti: l’Italia è all’ultimo posto in Europa per percentuale di laureati, è penultima per spesa per l’università in rapporto al PIL, è ultima nell’OCSE per spesa pubblica destinata all’istruzione, ha falcidiato almeno tre generazioni di giovani studiosi condannandoli alla fuga o ad un misero precariato. Nel contempo, il sistema del diritto allo studio è ormai lontanissimo da qualsiasi standard internazionale: il fondo nazionale è azzerato, la tassazione studentesca è in continuo aumento, l’offerta di servizi agli studenti è del tutto inadeguata, le strutture universitarie sono sempre più fatiscenti e inadatte ad una istruzione di qualità.

La drastica riduzione degli immatricolati è il risultato di campagne denigratorie secondo le quali “l’Università è dei baroni”, in “Italia si fanno ottime scarpe e non serve l’Università”, il futuro del paese è nella ristorazione… Le responsabilità di tutto ciò sono chiare ed evidenti.

Si è affermata la convinzione che “studiare è inutile”. L’Italia si avvia ad essere un paese con scarsa capacità innovativa, culturalmente deprivato, e scientificamente declinante. I danni sono incalcolabili e segneranno i decenni a venire. In questo contesto, a dispetto di quanto dica l’ex ministro Gelmini – tra i principali responsabili, col suo governo, dell’attuale disastro – i nostri ricercatori non hanno abbandonato l’università perché sarebbe finalmente competitiva, ma perché le sue porte sono del tutto chiuse ai più giovani e ai precari.

Tra i molti indici cui si potrebbe far riferimento alla qualità del nostro sistema della ricerca – se solo si volessero guardare le cose per quello che sono – si dovrebbe riflettere sulle ragioni che permettono a ricercatori italiani di vincere importanti bandi europei – si vedano i risultati ERC. E sulle ragioni per le quali sono però in pochi a decidere di rimanere e investire in Italia per il proprio futuro. Infatti, se relativamente ai bandi ERC gli italiani sono al terzo posto per numero di progetti vinti, oltre 28 su 328 totali, solo 10 di loro rimarranno a svolgere il loro lavoro in Italia. Assenza di prospettive di carriera, gravissime carenze strutturali, una assillante burocrazia e il moltiplicarsi dei vincoli normativi: queste le ragioni che incentivano alla fuga.

E appare patetica la gioia con la quale il MIUR ha lanciato il finanziamento di 5 milioni di euro (sic!) per il cosiddetto rientro dei cervelli. Al roboante annuncio “di agevolare l’assunzione dei ‘cervelli’ rientrati in Italia con l’obiettivo di garantire anche il necessario ricambio generazionale del corpo docente” segue lo stanziamento di fondi a mala pena sufficienti a reclutare poche decine di ricercatori a tempo determinato che “potranno” essere reclutati come professori associati se saranno abilitati.  

Il 2014 ci lascia con un sistema universitario italiano sempre più povero e sempre più diviso: risorse decrescenti e una distribuzione improntata ad una “premialità” che ha come unico obiettivo quello di separare un nucleo di atenei “eccellenti” da tutti gli altri.

Ed in effetti solo in apparenza il Fondo di funzionamento ordinario ha invertito la corsa al ribasso rispetto agli esercizi finanziari precedenti. Se si confrontano le assegnazioni totali degli ultimi due anni, il 2014 mostra rispetto al 2013 un incremento del 4,72% che si rivela, tuttavia, pari solo dello 0,84% se si tiene conto che nel FFO sono confluite risorse pari a € 259.296.000 prima allocate in tabella C della legge di stabilità, rispettivamente relative al Piano di sviluppo triennale degli atenei e alle borse di studio per gli studenti. Sul FFO pubblicheremo a breve una nota tecnica contenente le nostre osservazioni.

Peraltro, il decreto stabilità ha già previsto che l’FFO sia ridotto di 34 milioni per il 2015 e di 32 milioni dal 2016 al 2022, in considerazione di una razionalizzazione della spesa per acquisto di beni e servizi da effettuarsi a cura delle università”.

Le principali novità del decreto sono però altre, l’aumento al 18% della quota premiale e l’applicazione del costo standard per studente. Sulla quota premiale non possiamo che ribadire quanto più volte detto. In primo luogo, i requisiti della cosiddetta premialità continuano a cambiare e a essere adattati alle necessità del momento rendendo impossibile qualsiasi programmazione degli interventi necessari a risultare “meritevoli”. In secondo luogo, non di premialità si tratta ma di non-punibilità, perché questo fondo opera come una diversa distribuzione di una quota dei finanziamenti necessari all’ordinario funzionamento degli atenei sottratti alla generalità degli atenei e redistribuiti secondo criteri opinabili. Ciò che qualche ateneo ottiene in termini di minori tagli (molto raramente di maggiori finanziamenti) è sottratto ad altri atenei che non potranno che veder peggiorare la loro situazione, in una continua spirale al ribasso. Quello cui abbiamo assistito in questi anni è il lento drenare risorse dalla maggioranza degli atenei –quelli “periferici”, gli atenei del meridione e delle isole, quelli generalisti – a vantaggio di pochi atenei situati in via prevalente nel centro-nord ed ai politecnici. Sia chiaro, nessun ateneo “si arricchisce”, semmai c’è chi può gestire con maggiore tranquillità una condizione di crescente scarsità di risorse.

L’applicazione dei parametri connessi al cosiddetto “costo standard” non fa che ricalcare la stessa dinamica. Tra le molte criticità di questo provvedimento la maggiore è certamente quella connessa ad una distribuzione dei finanziamenti che non vede computati gli studenti fuori corso che, tipicamente, gravano in numero maggiore su corsi di studio più numerosi e impegnativi come giurisprudenza e medicina non presenti in tutti gli atenei. Il rischio è che le minori entrate vengano compensate con un aumento della tassazione per i “fuoricorso”. Del resto, difficilmente gli atenei possono investire in orientamento e tutorato per accompagnare al meglio questi studenti nel loro percorso di studio. Più semplice sarà “sbatterli fuori” – o meglio allontanare quelli economicamente più deboli, magari già studenti-lavoratori, innalzando ulteriormente le tasse.

Peraltro, è del tutto evidente che l’insieme delle politiche di questo e dei precedenti governi mirano alla riduzione del personale e degli studenti universitari. Il MIUR ha finalmente distribuito i punti organico per il reclutamento. Come già accaduto col precedente governo la “distribuzione premiale” finisce per dare risorse maggiori a quegli atenei che hanno entrate da tassazione studentesca più alte. Potremmo ricalcare parola per parola quanto scritto nel 2013. Ancora una volta ci sono atenei che perdono oltre il 60% dei punti organico liberati dal turn-over e altri che ne guadagnano più del 500% (un ateneo supera addirittura quota 1000!). E ciò avviene a dispetto della virtuosità di bilancio.

Si prenda il caso dell’ateneo di Bari, tra quelli che risultano “virtuosi” alla luce dei requisiti di bilancio previsti dallo stesso MIUR. Nel solo 2012 questo ateneo ha “liberato” per pensionamenti circa 82,70 punti organico ricevendone per l’anno 2013 5,67. A fronte di un numero di cessazioni negli anni 2011 e 2012 che cumula 165 punti organico, il numero di assunzioni riconosciuto all'Ateneo barese per il biennio 2012 e 2013 è stato pari a soli 15,55 punti organico. La condanna a morte per questo ateneo è tutta in questi numeri. Questo sistema di distribuzione attribuisce un numero crescente di punti organico a pochi atenei, caratterizzati da alta tassazione studentesca e da statuti speciali, e riduce progressivamente le possibilità di reclutamento degli atenei che insistono su aree del paese svantaggiata ed economicamente più deprivate.

Del resto, che le politiche di reclutamento nel sistema universitario italiano siano naufragate è reso evidente da quanto scritto, e da quanto manca, nella bozza di decreto cosiddetto “milleproroghe” in attesa di conversione in legge. Se l’articolo 1, comma 1 lettera b proroga al 31 dicembre 2015 l’utilizzo dei punti organico relativi alle cessazioni di personale dal 2009 al 2012, l’articolo 6 comma 2 proroga per i termini di chiamata dei docenti reclutati con i fondi del piano straordinario. La relazione di accompagnamento al decreto spiega quest’ultima proroga con queste ragioni: “Tale proroga è motivata dalla necessità di consentire a tutti gli abilitati della tornata (2013) dell’Abilitazione Scientifica Nazionale per il 2013, di poter partecipare alle procedure di selezione” che sono, tuttavia, nella loro gran parte ormai esaurite. La relazione ci informa anche che “i risultati dell’Abilitazione sono stati pubblicati dal 7 ottobre e ad oggi sono stati pubblicati i risultati di n. 48 settori su n. 184 e si andrà avanti per almeno altri 3 mesi”…. 

Se questo è ciò che è presente nel “milleproroghe” è ancor più importante quello che manca: un intervento a favore degli assegnisti di ricerca che, a partire da gennaio 2015 raggiungeranno il limite massimo di quattro anni fissato dalla normativa attuale. Per questi giovani e meno giovani ricercatori degli atenei e degli enti di ricerca italiani non ci sono al momento prospettive di assunzione e invece di costruire per loro opportunità, al limite di dare maggior tempo, il MIUR e il MEF ne hanno decretato l’allontanamento definitivo. Siamo nello spirito di tempi, “cacciato” un precario se ne farà un altro….

Da ultimo non possiamo che mettere in evidenza l’aspetto più rilevante e drammatico di questo quadro: la crisi del nostro sistema universitario non è un accidente ma è stata pianificata e rispondead una precisa idea di governo.

Infatti l'idea che sia possibile risalire la china della grave depressione economica tagliando ancora la spesa pubblica e puntando sull'attrazione di investimenti diretti esteri, presuppone oggi una svalutazione progressiva (ulteriore) del lavoro. Il collasso di una parte dei nostri atenei è messo già in conto così come la trasformazione di alcuni in teaching universities. E’ una scelta che non esitiamo a definire suicida perché oltre a negare l’opportunità di studiare per migliaia di giovani e costringere altri ad una emigrazione forzata per molti giovani ricercatori – operando in ciò una vera e propria selezione di classe – parte da una analisi sbagliata delle ragioni del nostro declino. Anzi usa a pretesto questa analisi sbagliata, quella per cui il problema sarebbe un eccesso di spesa pubblica e il costo del lavoro, per operare una netta scelta politica e ideologica a favore di chi si presume crei il lavoro e non debba per questa ragione essere disturbato. A prescindere dalla qualità del lavoro e dal rispetto della dignità delle persone. A prescindere dal ruolo degli investimenti in scienza e innovazione. Altro che Silicon Valley.

Così si leggono tutti i provvedimenti del governo a partire dal Jobs Act dove, non a caso, oltre alla cancellazione di elementari principi di civiltà giuridica, non c’è un euro investito per la formazione e per l’istruzione. Una ricetta chiaramente fallimentare oltre che socialmente insostenibile.

Inutile attendere scatti di orgoglio o prese di posizione della Crui, dei Rettori, dei tanti opinionisti che sempre pronti a ciarlare di merito e di eccellenze. Potranno eventualmente obiettare il singolo provvedimento ma non faranno nulla per contrastare il piano di ridimensionamento del sistema universitario.

Senza la costruzione di una stagione di partecipazione e mobilitazione ampia che rivendichi anche  una nuova centralità del sistema universitario per lo sviluppo del nostro paese non saremo in grado di invertire questa rotta regressiva.