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Repubblica-Palermo-UNA RIFORMA PER LE SCUOLE ANORMALI

UNA RIFORMA PER LE SCUOLE ANORMALI Ci sono scuole elementari e medie, di questi tempi, che ragionano di piani personalizzati, unità di apprendimento, portfolio, tutor, che cost...

15/02/2005
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la Repubblica

UNA RIFORMA PER LE SCUOLE ANORMALI
Ci sono scuole elementari e medie, di questi tempi, che ragionano di piani personalizzati, unità di apprendimento, portfolio, tutor, che costruiscono piani dell'offerta formativa. I docenti si confrontano, leggono, scaricano materiale da Internet, cercano di capirci qualcosa. Si tratta delle scuole "normali". I collegi dei docenti, si legge in alcuni monitoraggi, talvolta assumono posizioni forti, di netto rifiuto delle indicazioni ministeriali. I sindacati e le associazioni professionali che si occupano di aggiornamento sono al lavoro per chiarire, spiegare, risolvere questioni di carattere teorico e pratico.
Ci sono però scuole dove tutto questo non esiste perché pare effettivamente non avere senso alcuno anche soltanto iniziare una discussione sugli strumenti di una relazione educativa che ha essenzialmente i tratti dell'emergenza. Quale offerta formativa si può predisporre in contesti segnati dall'intimidazione e dalla violenza? In certe scuole per gli insegnanti essere esperti di matematica o di geografia significa poco. Conta essenzialmente la capacità di gestire, governare, vigilare, sanzionare.
Si gioca qui una partita drammatica in cui coloro che hanno responsabilità educative assumono un compito di interlocuzione formale e sostanziale con un territorio che conosce altre regole di convivenza, se così si possono definire. Che scuola si può fare in contesti come l'istituto Falcone nel quartiere San Filippo Neri? Quale valore possono avere le cosiddette "indicazioni nazionali della riforma Moratti" in ambienti educativi che richiedono una curvatura tutta specifica, tutta locale del curricolo scolastico? E strumenti quali il tutor o il portfolio quale possibilità hanno di intercettare le traiettorie formative di ragazzine e ragazzini che hanno "ognuno una tragedia alle spalle", come ha commentato la preside Silvana Ricotta all'indomani degli atti vandalici commessi nell'istituto?
Le scuole godono dell'autonomia didattica e organizzativa. Ma autonomia non è sinonimo di isolamento e abbandono. Le istituzioni non possono far finta di niente. Le lamentele lette sui giornali in questi giorni hanno un fondamento serio e riscontrabile. Se si riconosce che la presenza di una scuola ha un senso anche allo Zen 2, occorrono a questa e ad altre scuole con gli stessi problemi, perché possa restare in piedi un briciolo di relazione educativa con i ragazzini che le frequentano, supporti istituzionali e psicopedagogici ben più consistenti di quelli di cui attualmente dispongono. Ma proprio perché si parla di scuola, e non di un qualsiasi centro sociale di recupero delle situazioni di devianza, l'attenzione alla dimensione istituzionale e sociale non può oscurare del tutto la dimensione culturale, pena l'abdicazione al compito essenziale della scuola che resta quello di istruire.
Per quanto possa sembrare a prima vista incongruente una simile riflessione di fronte agli atti vandalici cui abbiamo assistito in questi giorni, che rivelano l'incolpevole fallimento dell'impresa educativa, non è possibile rinunciare all'idea che l'istruzione, e l'istruzione ad alto contenuto civico e formativo, resti l'unico serio antidoto - di pertinenza della scuola - al degrado e alla devianza. Per questo non appaia peregrino affiancare alla predisposizione degli strumenti di governo dell'emergenza la riflessione di carattere culturale e didattico che possa consentire ai bravi (per unanime riconoscimento delle famiglie della zona) e coraggiosi insegnanti che operano in questi contesti scelte innovative ancor più coraggiose, modalità creative e magari fin ora impensate di reinterpretare le discipline scolastiche in maniera compatibile con lo specifico contesto territoriale.
All'interno della indubbia consapevolezza che la questione del conoscere e dell'apprendere è solo uno dei nodi del problema, forse la direzione regionale dell'istruzione e il Csa provinciale, in sinergia con gli enti preposti alla formazione dei docenti e con gruppi di docenti espressi da queste scuole che in questo modo troverebbero occasione di sostegno e confronto, potrebbero costituire un tavolo permanente di riflessione che affronti anche il nodo culturale della questione scuole a rischio: un tavolo che si interroghi su come sia possibile immaginare situazioni formative sempre più coinvolgenti, sempre più numerose, che abbiano la capacità di intercettare, prima che sia troppo tardi, la sfera emotivo-relazionale di questi giovani per riorientarne, dove possibile, la gerarchia dei valori e dei modelli culturali.
È molto rischioso confinare la questione delle scuole a rischio in ambito esclusivamente giudiziario, sociale o anche genericamente pedagogico, lasciando fuori, come utopia impraticabile, la questione dello sviluppo culturale. Se l'articolo 3 della Costituzione affida alla Repubblica, e quindi anche e soprattutto alle istituzioni scolastiche, un compito di decondizionamento, esso non può essere demandato esclusivamente a supporti di carattere contestuale, ma deve investire anche il proprium della scuola che resta, ovunque e comunque, quello di favorire l'incontro dei giovani e giovanissimi con la cultura, nell'accezione più larga del termine, che include cittadinanza, legalità, senso del pubblico, senso delle relazioni sociali e quant'altro. A meno di ritenere che possano esistere luoghi, nel nostro territorio nazionale, nei quali quell'articolo della Costituzione risulta inapplicabile e pertanto l'istituzione scolastica non ha motivo di esistere. Ma sono proprio le porte divelte dell'istituto Falcone a contraddire quest'idea: chi distrugge riconosce comunque l'esistenza di chi vuole distruggere, e la riconosce come nemica. Basta questo a restituire il senso di una presenza.
Maurizio Muraglia


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