E il premier fa autocritica “Non sono riuscito a farmi capire”
07/05/2015
la Repubblica
Francesco Bei
ROMA .
Una frase del genere, sulla bocca di quello che viene considerato (e si ritiene) il comunicatore numero uno della politica, nessuno ancora l’aveva sentita. Ma sulla scuola, dopo l’ondata di manifestazioni che ha investito il progetto del governo, Matteo Renzi ieri mattina ha fatto la sua prima autocritica: «Se ci sono stati errori di comunicazione, sono stati miei. Non ho saputo spiegare il valore delle cose che stiamo facendo, me ne assumo la piena responsabilità». I presenti, tutti i parlamentari del Pd delle commissioni cultura del parlamento, riuniti al Nazareno, quasi non credevano alle loro orecchie.
Ma Renzi è tornato a fare il Renzi quando si è capito che non aveva alcuna intenzione di mettersi a discutere personalmente con i sindacati. Il problema, semmai, «è quello di convincere i gli italiani, non gli addetti ai lavori. Quelli — confida il premier ai suoi — ce li avremo sempre contro». Da qui a metà giugno, quando la delega dovrebbe essere approvata definitivamente, lo sforzo del governo e del Pd sarà, appunto, rivolto all’esterno. Perché, come dice il premier in privato, «noi stiamo mettendo 4 miliardi sulla scuola e stiamo per assumere 160 mila precari. E invece ci trattano come la Gelmini, che di miliardi ne aveva tagliati 8 e cancellato 80 mila cattedre». L’unica contro-informazione, per ora, sono state quelle 14 slides apparse sul sito del Pd, a cui ha lavorato la deputata Anna Ascani la notte prima dello sciopero. Il compito di illustrare la riforma e recepire eventuali punti di contatto con le proposte dei sindacati è stato girato invece ai vertici del Pd, Guerini e Orfini. Ieri, nel summit al Nazareno, è stato Matteo Orfini a lanciare l’idea: «Il segretario ha aperto al dialogo e ora si tratta di dare un seguito politico a questa apertura. C’è un’incomprensione su questa riforma e vederla raccontata come è stato fatto in piazza ci fa male». Renzi lascia fare: «Incontrateli, mi sembra giusto». Ma il governo ne resterà fuori, anche per non dare l’impressione di essersi piegato ai diktat della piazza, che chiedeva il ritiro in blocco del provvedimento.
Su alcuni, specifici, punti invece si tratterà. Sul potere dei dirigenti scolastici, ad esempio, la delega sta già cambiando. Nello schema del premier il “preside” avrebbe dovuto avere un potere monarchico in tre campi: il Piano per l’offerta formativa, l’erogazione di premi ai professori meritevoli, la scelta dei docenti da assumere a scuola. Ora invece in questi tre campi, il monarca si dovrà confrontare con un parlamentino. Quello del consiglio d’istituto, dove sono rappresentate tutte le categorie: dai docenti ai genitori, dal personale Ata agli studenti. Il “Pof” sarà elaborato insieme al collegio dei docenti e votato dal consiglio d’istituto. Mentre per attribuire un bonus a un prof, il preside dovrà attenersi a una griglia di criteri definiti preventivamente da un comitato di valutazione. Insomma, non potrà regalare soldi agli amici. Quanto al potere più contestato (dai sindacati), quello di scegliersi «la squadra», Renzi la ritiene «il cuore dell’autonomia scolastica, quindi il cuore della riforma». E tuttavia anche su questo qualcosa si sta muovendo. L’idea è quella di consentire ai docenti di avanzare la propria candidatura direttamente alla scuola dove vorrebbero andare a insegnare. L’altra ipotesi la spiega il capogruppo Pd Ettore Rosato: «Il collegio dei docenti dovrà nominare una commissione che, insieme al dirigente, sceglierà i docenti ». È un passo verso quella collegialità nelle decisioni reclamata dalle piazze del 5 maggio. La monarchia del preside renziano diventerà costituzionale.
Uscendo ieri sera dal primo incontro, quello con gli studenti, Orfini apre anche su altri punti in discussione: «L’eccesso di delega è un tema vero, si può pensare a ridurne l’ampiezza. Anche il diritto allo studio per i più bisognosi, sollevato dagli studenti, mi trova d’accordo». Cambiamenti in vista anche per superare le forche caudine del Senato, dove i 22 dissidenti del Pd potrebbero far mancare il loro voto e lasciare il governo sotto quota 161. Certo, i segnali positivi in arrivo da Forza Italia lasciano pensare a un possibile soccorso azzurro sulla riforma. Ma per il momento a Palazzo Chigi preferiscono giocare a sinistra il primo tempo della partita.