Il Paese si cambia migliorando la scuola
La riforma sulla quale il Presidente del Consiglio ha deciso - dopo l’approvazione di quella del mercato del lavoro - di puntare sarà non solo “una riorganizzazione amministrativa” della scuola, ma molto di più: la costruzione attraverso una riforma permanente e condivisa del nostro sistema educativo dell’idea “di cosa la società italiana vuole essere tra trent’anni”.
02/03/2015
Il Messaggero
Francesco Grillo
La riforma sulla quale il Presidente del Consiglio ha deciso - dopo l’approvazione di quella del mercato del lavoro - di puntare sarà non solo “una riorganizzazione amministrativa” della scuola, ma molto di più: la costruzione attraverso una riforma permanente e condivisa del nostro sistema educativo dell’idea “di cosa la società italiana vuole essere tra trent’anni”. È un’intuizione da leader che scommette di poter durare per decenni quella che Matteo Renzi affida al ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, che in settimana porterà al Consiglio dei ministri un disegno di legge e un decreto legge che devono quadrare un cerchio fatto di emergenze immediate e visioni di medio termine. E degli interessi, spesso divergenti, di otto milioni di alunni e un milione di insegnanti.
Ma quali sono i nodi da sciogliere per poter dare sostanza - possibilmente non tra trent’anni ma entro l’inizio del prossimo anno scolastico - ad un progetto così ambizioso? Sono quattro le questioni sulle quali occorre una scelta: quella della risorse, della percentuale ottimale di prodotto interno lordo che un Paese deve oggi spendere in educazione; il ruolo che la scuola pubblica deve avere in un progetto di ricostruzione di una comunità nazionale; l’autonomia, i meccanismi di valutazione e le conseguenze - non ovvie - che esse dovrebbero avere sulle carriere degli individui e la ridistribuzione delle risorse tra gli istituti. E infine, siccome la realizzazione delle intuizioni passa attraverso la gestione faticosa delle emergenze, non ci si può non preparare all’impatto sul disegno complessivo, dell’ipotesi di dover aumentare in un solo colpo di un terzo gli organici per fare posto a circa duecentomila precari.
Sulla questione prettamente economica i numeri non lasciano dubbi. Un’analisi dell’Oecd arriva a stimare gli effetti di una riforma della scuola che raggiunga l’obiettivo di migliorare (anche solo del cinque per cento) i risultati raggiunti dagli studenti quindicenni nei test che ne misurano le competenze: in un Paese come l’Italia il Pil - a riforma e ricambi generazionali completati - si collocherebbe in maniera stabile su una curva più elevata del 3 per cento rispetto ad uno scenario inerziale. Investire in educazione è uno degli investimenti a maggiore ritorno e lo stesso ministro dell’Economia (che conosce bene le analisi dell’Oecd per esserne stato il vice segretario generale) non dovrebbe aver dubbi ad avviare un processo di revisione della spesa che, in maniera finalmente intelligente, sposti risorse da utilizzazioni tecnicamente improduttive (attualmente l’Italia spende in pensioni quasi quattro volte di più di quanto investe dagli asili alle università) ad altre che aumentino il tasso di crescita potenziale. Peraltro, l’investimento pubblico può e deve - attraverso la creazione di aspettative - attrarre investimenti privati: in termini di adozione di strutture scolastiche in difficoltà (come potrebbero i contribuenti destinandovi il cinque per mille), ma anche di tempo da parte di chi (succede negli Stati Uniti su larga scala con il programma Tfa replicato in molti Paesi del mondo) mette a disposizione mesi della propria vita per tornare - dopo uno specifico addestramento - in classe da insegnante.
È minato, invece, da scontri ideologici antichi, il terreno della definizione del ruolo della Scuola pubblica e, in particolare, quello della possibilità che lo Stato finanzi - direttamente o attraverso voucher affidati alle famiglie - scuole private. È evidente che la visione - evocata dal Presidente del Consiglio - di fare della Scuola, la piattaforma che ridia all’Italia un’idea di se stessa, richiede una scuola pubblica. Non è quella di Matteo Renzi una visione nuova e può, anzi, apparire singolare che essa venga dal leader più post ideologico in circolazione: la scuola pubblica è stata la leva che - insieme e prima ancora della televisione e delle trincee della prima guerra mondiale - fece l’Italia ed è questo il ruolo che le fu affidato dai liberali della Destra storica all’inizio della storia unitaria e, poi, da Giovanni Gentile e dallo stesso Gramsci. Nel 2015 la Scuola pubblica, però, non è quella ottocentesca dello “Stato che educa”; può diventare, invece, una piattaforma che integra culture diverse, ragazzi normali con quelli in difficoltà. Se è così, va bene che ci siano voucher da spendere per attività che integrino il curriculum della scuola pubblica, ma è la scuola pubblica a rimanere collante dei pezzi nei quali le società si stanno disintegrando e la proposta del governo sembra collocarsi su un piano diverso da un modello anglosassone nel quale ad ogni tipologia di quartiere corrisponde una tipologia di scuola.
Se, però, la riforma non è solo questione amministrativa, di certo le visioni sopravvivono solo se c’è qualcuno che risolve anche i problemi organizzativi. Il ministro Giannini è portatrice di un’idea meritocratica e che molto si affida alla valutazione e a carriere che siano condizionate dai risultati. In effetti - come già mi è capitato di notare - lo strumento valutativo già esiste e su di esso lo Stato già spende 8 milioni di euro all’anno (coinvolgendo nelle prove 3 milioni di studenti): ciò che continua a non essere accettabile agli studenti e alle famiglie che devono scegliere, è che non siano disponibili - come succede in Inghilterra - i risultati dell’Invalsi per singola scuola. La trasparenza dei dati e la scelta da parte del pubblico produrrebbe, da sola, una forte spinta verso la competizione e l’emulazione. Più complessa è, invece, la questione delle conseguenze dei risultati sulle carriere individuali e sulla distribuzione delle risorse tra scuole. Entrambi i punti rimandano a crescenti doti di autonomia dei dirigenti scolastici anche sul piano della mobilità degli insegnati. In un mondo in cui gli insegnanti sono tutti abilitati attraverso un concorso e i dirigenti ricevono un premio di produttività legato alla prestazione della propria scuola, una parte dello stipendio dei professori più bravi è legato ad un premio che il preside assegna per tenersi i migliori e gli insegnanti meno capaci sono incoraggiati a migliorare dal fatto che ricevono meno richieste. La sfida vera sarebbe, però, ancora un’altra: creare i sistemi in grado di trasferire i modelli organizzativi e le competenze gestionali da parte delle scuole che ottengono i risultati migliori alle altre.
E, tuttavia, l’intero progetto è chiamato a rispondere ad un’emergenza creata da decenni di cattiva gestione (da parte di ministri troppo impegnati a fare riforme mai portate a compimento) e da sentenze della Corte di Giustizia europea. Un processo di cambiamento destinato a durare trent’anni deve, subito, fare i conti con la promessa di assumere duecentomila precari (quelli presenti in graduatorie definite - con autoironia - “ad esaurimento” ed altri) che aumenterebbe l’organico della più grande azienda italiana di un terzo. Come posso conciliare ciò con l’esigenza di assumere in maniera qualificata, progressiva e solo dove serve?
La scuola italiana del futuro è una scuola che, come diceva Don Milani, non seleziona perché se lo facesse “priverebbe il povero della possibilità di appropriarsi delle parole e i ricchi di quella di conoscere la realtà”, rendendo tutti più vulnerabili. Tornare a questa visione che è, insieme classica e moderna comporta però scelte drastiche, leadership e un lavoro che coinvolge milioni di persone. Del resto, il problema con l’innovazione è che, come sempre, essa è fatta per il 10% di visione e il 90% della fatica necessaria per poterla far crescere.
La riforma sulla quale il Presidente del Consiglio ha deciso - dopo l’approvazione di quella del mercato del lavoro - di puntare sarà non solo “una riorganizzazione amministrativa” della scuola, ma molto di più: la costruzione attraverso una riforma permanente e condivisa del nostro sistema educativo dell’idea “di cosa la società italiana vuole essere tra trent’anni”. È un’intuizione da leader che scommette di poter durare per decenni quella che Matteo Renzi affida al ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, che in settimana porterà al Consiglio dei ministri un disegno di legge e un decreto legge che devono quadrare un cerchio fatto di emergenze immediate e visioni di medio termine. E degli interessi, spesso divergenti, di otto milioni di alunni e un milione di insegnanti.
Ma quali sono i nodi da sciogliere per poter dare sostanza - possibilmente non tra trent’anni ma entro l’inizio del prossimo anno scolastico - ad un progetto così ambizioso? Sono quattro le questioni sulle quali occorre una scelta: quella della risorse, della percentuale ottimale di prodotto interno lordo che un Paese deve oggi spendere in educazione; il ruolo che la scuola pubblica deve avere in un progetto di ricostruzione di una comunità nazionale; l’autonomia, i meccanismi di valutazione e le conseguenze - non ovvie - che esse dovrebbero avere sulle carriere degli individui e la ridistribuzione delle risorse tra gli istituti. E infine, siccome la realizzazione delle intuizioni passa attraverso la gestione faticosa delle emergenze, non ci si può non preparare all’impatto sul disegno complessivo, dell’ipotesi di dover aumentare in un solo colpo di un terzo gli organici per fare posto a circa duecentomila precari.
Sulla questione prettamente economica i numeri non lasciano dubbi. Un’analisi dell’Oecd arriva a stimare gli effetti di una riforma della scuola che raggiunga l’obiettivo di migliorare (anche solo del cinque per cento) i risultati raggiunti dagli studenti quindicenni nei test che ne misurano le competenze: in un Paese come l’Italia il Pil - a riforma e ricambi generazionali completati - si collocherebbe in maniera stabile su una curva più elevata del 3 per cento rispetto ad uno scenario inerziale. Investire in educazione è uno degli investimenti a maggiore ritorno e lo stesso ministro dell’Economia (che conosce bene le analisi dell’Oecd per esserne stato il vice segretario generale) non dovrebbe aver dubbi ad avviare un processo di revisione della spesa che, in maniera finalmente intelligente, sposti risorse da utilizzazioni tecnicamente improduttive (attualmente l’Italia spende in pensioni quasi quattro volte di più di quanto investe dagli asili alle università) ad altre che aumentino il tasso di crescita potenziale. Peraltro, l’investimento pubblico può e deve - attraverso la creazione di aspettative - attrarre investimenti privati: in termini di adozione di strutture scolastiche in difficoltà (come potrebbero i contribuenti destinandovi il cinque per mille), ma anche di tempo da parte di chi (succede negli Stati Uniti su larga scala con il programma Tfa replicato in molti Paesi del mondo) mette a disposizione mesi della propria vita per tornare - dopo uno specifico addestramento - in classe da insegnante.
È minato, invece, da scontri ideologici antichi, il terreno della definizione del ruolo della Scuola pubblica e, in particolare, quello della possibilità che lo Stato finanzi - direttamente o attraverso voucher affidati alle famiglie - scuole private. È evidente che la visione - evocata dal Presidente del Consiglio - di fare della Scuola, la piattaforma che ridia all’Italia un’idea di se stessa, richiede una scuola pubblica. Non è quella di Matteo Renzi una visione nuova e può, anzi, apparire singolare che essa venga dal leader più post ideologico in circolazione: la scuola pubblica è stata la leva che - insieme e prima ancora della televisione e delle trincee della prima guerra mondiale - fece l’Italia ed è questo il ruolo che le fu affidato dai liberali della Destra storica all’inizio della storia unitaria e, poi, da Giovanni Gentile e dallo stesso Gramsci. Nel 2015 la Scuola pubblica, però, non è quella ottocentesca dello “Stato che educa”; può diventare, invece, una piattaforma che integra culture diverse, ragazzi normali con quelli in difficoltà. Se è così, va bene che ci siano voucher da spendere per attività che integrino il curriculum della scuola pubblica, ma è la scuola pubblica a rimanere collante dei pezzi nei quali le società si stanno disintegrando e la proposta del governo sembra collocarsi su un piano diverso da un modello anglosassone nel quale ad ogni tipologia di quartiere corrisponde una tipologia di scuola.
Se, però, la riforma non è solo questione amministrativa, di certo le visioni sopravvivono solo se c’è qualcuno che risolve anche i problemi organizzativi. Il ministro Giannini è portatrice di un’idea meritocratica e che molto si affida alla valutazione e a carriere che siano condizionate dai risultati. In effetti - come già mi è capitato di notare - lo strumento valutativo già esiste e su di esso lo Stato già spende 8 milioni di euro all’anno (coinvolgendo nelle prove 3 milioni di studenti): ciò che continua a non essere accettabile agli studenti e alle famiglie che devono scegliere, è che non siano disponibili - come succede in Inghilterra - i risultati dell’Invalsi per singola scuola. La trasparenza dei dati e la scelta da parte del pubblico produrrebbe, da sola, una forte spinta verso la competizione e l’emulazione. Più complessa è, invece, la questione delle conseguenze dei risultati sulle carriere individuali e sulla distribuzione delle risorse tra scuole. Entrambi i punti rimandano a crescenti doti di autonomia dei dirigenti scolastici anche sul piano della mobilità degli insegnati. In un mondo in cui gli insegnanti sono tutti abilitati attraverso un concorso e i dirigenti ricevono un premio di produttività legato alla prestazione della propria scuola, una parte dello stipendio dei professori più bravi è legato ad un premio che il preside assegna per tenersi i migliori e gli insegnanti meno capaci sono incoraggiati a migliorare dal fatto che ricevono meno richieste. La sfida vera sarebbe, però, ancora un’altra: creare i sistemi in grado di trasferire i modelli organizzativi e le competenze gestionali da parte delle scuole che ottengono i risultati migliori alle altre.
E, tuttavia, l’intero progetto è chiamato a rispondere ad un’emergenza creata da decenni di cattiva gestione (da parte di ministri troppo impegnati a fare riforme mai portate a compimento) e da sentenze della Corte di Giustizia europea. Un processo di cambiamento destinato a durare trent’anni deve, subito, fare i conti con la promessa di assumere duecentomila precari (quelli presenti in graduatorie definite - con autoironia - “ad esaurimento” ed altri) che aumenterebbe l’organico della più grande azienda italiana di un terzo. Come posso conciliare ciò con l’esigenza di assumere in maniera qualificata, progressiva e solo dove serve?
La scuola italiana del futuro è una scuola che, come diceva Don Milani, non seleziona perché se lo facesse “priverebbe il povero della possibilità di appropriarsi delle parole e i ricchi di quella di conoscere la realtà”, rendendo tutti più vulnerabili. Tornare a questa visione che è, insieme classica e moderna comporta però scelte drastiche, leadership e un lavoro che coinvolge milioni di persone. Del resto, il problema con l’innovazione è che, come sempre, essa è fatta per il 10% di visione e il 90% della fatica necessaria per poterla far crescere.