Insegnanti, tutti brava gente?
Eroi, fannulloni, insegnanti
di Marina Boscaino
È tanto tempo che ho smesso di professare la religione “insegnanti, tutta brava gente”. Ho dismesso quella lettura un po’ romantica, un po’ utopica che – nei primi tempi della mia collaborazione su quotidiani (10 anni fa) – mi sembrava il modo più efficace per esigere quel rispetto che sentivo di meritare non solo per la passione e l’impegno con cui mettevo a disposizione le mie competenze, ma anche per la funzione – semplicemente – che avevo deciso di svolgere all’interno della società: la più politica, nel senso letterale del termine, se pensiamo al concetto di cittadinanza. Quella le cui prerogative sono scandite limpidamente e semplicemente dalla nostra Costituzione.
A poco a poco ho cambiato parere. E mi sono accorta che l’abbassamento dei livelli di competenze, i salari con un potere d’acquisto sempre più avvilente, lo scarso investimento sul ruolo del docente e sulla scuola pubblica che ha – trasversalmente, purtroppo – scandito le politiche scolastiche degli ultimi lustri, hanno avuto effetti negativi sulla motivazione di molti. Il disagio cresce quotidianamente, insieme alla scelta di alcuni di fare dell’insegnamento la sinecura che garantisca di portare a casa uno stipendio con uno sforzo a basso costo.
D’altro canto, di persone serie – è sotto gli occhi di tutti – ce ne sono molte in giro. Questo lo sanno benissimo anche gli sconsiderati cantori dell’epica del fannullonismo che stanno al Governo. E infatti assieme alla caccia al fannullone hanno inaugurato l’epoca delle rappresaglie alla libertà di pensiero, alla laicità dell’insegnamento, alla autodeterminazione dei docenti rispetto alle procedure bizantine e poco legittime che hanno scandito fasi e trasformazione in testo di legge della “epocale riforma”.
Insegnanti: eroi o fannulloni?
La perdita di una funzione culturale e di uno statuto sociale dei docenti di una società che si alimenta di ben altri miti, sono sintetizzati da due estremi, altrettanto demagogici e occhieggianti a consensi opposti, che danno in maniera analoga il senso di una professione che non riesce più a trovare una collocazione significativa all’interno di questa società: qualche giorno fa, durante la trasmissione di Saviano e Fazio, Bersani – certamente animato da ottime intenzioni – ha chiamato “eroi” i professori che vanno in cattedra tutti i giorni; d’altro canto, è a tutti nota la triste iconografia del fannullon-sessantottino tanto cara a Brunetta e soci. Si tratta di due rappresentazioni che denunciano la perdita di contatto tra la società e chi continua a svolgere questo lavoro con passione e responsabilità – e siamo in tanti. Si tratta di una società che non riesce nemmeno più a individuare forme linguistiche – che non siano esageratamente encomiastiche o impudicamente offensive – per definire una funzione che pretende rispetto e considerazione, non idolatria o dileggio.
In questo smarrimento del senso, in questo patto infranto – quel patto che ha consentito cooperazione, idem sentire, condivisione tra il dentro e il fuori della scuola, negli anni che hanno reso solide le basi della nostra democrazia – gli insegnanti oscillano tra una sfiduciata dismissione culturale, che accompagna quella sociale; e un ostinato esercizio della vocazione missionaria che molti di noi hanno; quella vocazione (di norma non corroborata da sorveglianza sull’esigibilità dei diritti) che ha consentito – nonostante la gestione catastrofica dei governi degli ultimi anni – alla scuola di andare avanti comunque, tentando di tamponare e di neutralizzare i danni che gli strateghi delle politiche dell’istruzione producevano impunemente.
Nessuno dei nostri politici ha pagato il conto di errori marchiani (l’abbassamento dell’obbligo scolastico, la diminuzione drammatica delle competenze di lettoscrittura nei quindicenni scolarizzati nel nostro Paese), di scoop ad uso della stampa che si sono tradotti in nulla o – peggio – in evasione delle normative (Cittadinanza e Costituzione, il portfolio). A nessuno è stato presentato il conto di cambiamenti continui – traumatici o a colpi di cacciavite – che la scuola ha subito protestando o no, ma troppo spesso sostituendo all’opposizione e alla condivisione della resistenza l’adattamento (responsabile o di comodo) alle novità.
Di chi è la responsabilità di giornate spese in ambienti spesso insicuri, in condizioni talvolta fatiscenti, nella penuria di materiale di uso quotidiano, dalla famosa carta igienica al toner per la stampante? Sono responsabilità fluttuanti, che non sappiamo o preferiamo non assegnare a nomi e cognomi, alle quali – con camaleontico spirito di adattamento – siamo addestrati ad adeguarci. E così, giorno dopo giorno, la scuola è diventata quello che è. Nella rinuncia ormai consolidata anche a quelle forme di compartecipazione e di condivisione – dopo lo splendido canto del cigno della manifestazione del 30 ottobre 2008 – con i nostri studenti; vittime, loro totalmente incolpevoli, della dissipazione istituzionalizzata della scuola pubblica; e, con essa, del principio di uguaglianza e del diritto allo studio.
Il disegno di legge Aprea
Sono 2 anni che – oltre che della gestione di una dilettante allo sbaraglio che occupa per meriti totalmente misteriosi la poltrona del ministero, ma non fa altro che parlare di merito e premialità, in una inspiegabile, sfacciata contraddizione – che si parla del disegno di legge Aprea, l’insidia sopita (stenta ad essere sferrata) per sostanziali disaccordi interni alla maggioranza. Un disegno di legge che si declina su due punti sostanziali: l’autogoverno della scuola e la condizione dei docenti. Le scuole vengono trasformate in fondazioni, istituti di diritto privato. Lo Stato garantisce loro una cifra fissa e identica per tutte, ma le aziende o gli enti, associazioni o utenti potranno contribuire con finanziamenti. Tale condizione – tra tutti i possibili scetticismi rispetto alle concrete velleità di entrare come finanziatori di un’istituzione scolastica – configura la possibilità non solo di privatizzare qualunque scuola, ma di creare immense disparità tra istituti, a seconda del livello ordinamentale, dell’utenza, della collocazione nel territorio.
Al consiglio di istituto – attraverso una rivisitazione dei decreti delegati – verrà sostituito un consiglio di amministrazione (nel quale non sono più compresi gli Ata), di cui farebbero parte rappresentanti degli enti locali e del mondo del lavoro e delle professioni. Non è un caso che questo percorso (di cui non è difficile individuare, oltre che le criticità rilevate, i danni in termini di ingerenza sulla libertà di insegnamento) rappresenta l’abiura definitiva al concetto di Scuola della Repubblica, di scuola della Costituzione e della cittadinanza democratica.
La carriera dei docenti – la cui formazione iniziale è concepita sul modello 3+2, con un corso universitario caratterizzato per il 75% da crediti di tipo contenutistico-disciplinare e solo per il 25% di tipo relazionale, didattico, pedagogico, cui seguirà un anno di tirocinio validato dal giudizio del dirigente, dopo il quale il candidato potrà iscriversi ad un albo rigorosamente regionale – sarà articolata in 3 livelli: iniziale, ordinario ed esperto.
Gli aumenti stipendiali saranno vincolati all’anzianità e all’appartenenza al singolo livello, determinato da concorsi banditi da ciascun istituto. Si propone così, oltre che un aggravio di lavoro difficilmente sostenibile dalle segreterie, fiaccate dai tagli degli Ata, un sistema di reclutamento e di progressione di carriera improntati a “cordate” interne più o meno di potere, meccanismo non dissimile da quello che il centro destra continua a dichiarare di voler debellare all’università.
Infine, saranno soppresse le Rappresentanze Sindacali Unitarie e verrà istituita una specifica area contrattuale per i docenti. Ecco, nel progetto, il desolante passaggio dalla scuola della Repubblica (statale, laica, pluralista, inclusiva, integrante) alla scuola privata (confessionale, aziendalista, esclusiva, “omologata”). Qui si vanno a minare definitivamente i cardini dello stato sociale come frutto del patto di solidarietà alla base della Carta, e si scongiura ogni possibilità di affidare alla scuola funzioni emancipanti rispetto alle condizioni socioeconomiche di partenza di tutti e di ciascuno.
Il disegno di legge Goisis
Ma l’insidia non è inferiore se cambiamo proposta di legge: soprattutto se a sferrarla è un partito in ascesa costante e apparentemente inarrestabile. Nel Nord del Paese si sta attentando – prima di tutto – al principio di uguaglianza, sancito dalla Costituzione anche attraverso la scuola, quella degli artt. 33 e 34, attaccando diritti individuali e collettivi. La devoluzione della scuola rischia di violare la prevalenza assoluta dei 12 articoli che costituiscono i Principi Fondamentali rispetto agli altri e a loro eventuali revisioni. La riscrittura dell’art. 117 del Titolo V, insomma, ha assegnato alle regioni competenze su alcuni ambiti (tra cui l’istruzione), con il rischio che forzature politiche li disciplinino violando quei Principi Fondamentali.
La diversa realtà socio-culturale delle singole regioni non deve tradursi in alterazione dell’impianto nazionale, configurando 20 sistemi scolastici differenti. È questa, invece, la ratio del ddl Goisis, altro spauracchio che incombe sulla scuola pubblica italiana e sull’unitarietà del sistema scolastico nazionale: albi regionali di insegnanti, dirigenti e Ata (reclutati solo tra i residenti); docenti dipendenti non più dallo Stato, ma dalla regione. Condizioni contrattuali differenziate. Quote di insegnamenti sulla conoscenza del territorio di appartenenza; 3 organi scolastici: dirigente, consiglio dell’Istituzione, collegio dei docenti. Scuole autonome, finanziate direttamente dalla regione, con contributi da famiglie, enti pubblici e privati.
Tra regionalizzazione discriminatoria e neoliberismo galoppante, queste sono le prospettive. A meno che lo scenario politico non cambi. E allora sarà il caso di valutare il programma sulla scuola di un’opposizione che – fino ad oggi – ha espresso auspici e stigmatizzazioni certamente comprovabili, ma altrettanto prevedibili, senza mostrare una elaborazione, uno studio approfondito e consapevole del come inaugurare un rinnovamento reale e costruttivo in alternativa alle “riforme” fatte solo in funzione dell’abbattimento dei costi.
Se le iniziative di Aprea e Goisis hanno propiziato organizzazione di convegni, dibattiti, seminari, mobilitazioni, nonostante siano ancora proposte di legge, non altrettanto si è fatto per un ben più grave pericolo che non solo minaccia, ma è penetrato anzitempo – anche grazie alla complicità di dirigenti scolastici zelanti, esecutori, o meglio, anticipatori acritici di direttive pretestuose – nella scuola italiana.
La legge Brunetta
La legge 15/09 (legge Brunetta) è andata a rivisitare la legge 165/2001 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni) occupandosi di molteplici temi. Innanzitutto blocca il processo di delegificazione ad opera dei contratti, rilegificando il rapporto di lavoro nella PA (prevalenza della legge sul contratto). Il lavoro svolto in senso opposto negli anni ’90 viene sostanzialmente annullato, prevedendo una progressiva convergenza degli assetti regolativi del rapporto di lavoro pubblico a quello privato.
La legge configura un organismo estremamente complesso (che si articola su contrattazione integrativa e collettiva e funzionalità delle PA; valutazione delle strutture e del personale e principio di trasparenza; merito e premialità; dirigenza pubblica; sanzioni disciplinari e responsabilità dei dipendenti pubblici) che – per essere applicato in toto al comparto scuola – avrà bisogno di una produzione normativa enorme. Il cambiamento però è già in atto, e segnali sempre più netti ne sono testimonianza allarmante, nonostante sulla legge prevalga ancora il nostro contratto, in vigore fino al 2012 (ma l’art. 65 della legge prevede l’adeguamento ai contenuti del decreto entro il 31/12/10). Molti si sono già accorti che effetti immediati della legge nella scuola sono stati la decurtazione, durante le assenze per malattia, del compenso, così come l’alterazione delle fasce di reperibilità durante la stessa malattia.
Il DLgs 150/09, in attuazione della legge 15/09, va a modificare profondamente il sistema disciplinare nel pubblico impiego. Il primo radicale cambiamento determinato dal dlgs consiste nell’estensione del potere sanzionatorio del dirigente scolastico: uno strumento che solo alcuni sono in grado di gestire con intelligenza e cultura democratica. In precedenza, l’unica sanzione a disposizione del dirigente scolastico era la famosa “lettera”, avvertimento scritto, riservando al superiore gerarchico la possibilità – in caso di infrazioni gravi – di intervenire più severamente. Con la nuova normativa i dirigenti scolastici possono infliggere al docente fino a un massimo di 10 giorni di sospensione dal servizio, con perdita della retribuzione nel periodo corrispondente. Ecco uno dei modi con cui si è deciso di inseguire le esigenze di produttività ed efficienza della Pubblica Amministrazione, uno dei cavalli di battaglia di questo Governo: spot appositi ci tempestano tutti i giorni sulla possibilità di accreditarsi presso la scuola dei propri figli per accedere alle assenze online, valutazione online e tanti altri “gadget tecnocratici”, rassicurante contropartita della incapacità – durata per anni e tuttora valutabile – della mancanza di una reale cultura del digitale nella scuola italiana.
Indipendentemente da annunci trionfalistici e innamoramenti periodici per nuovi totem tecnologici, nella realtà permane un’avvilente incapacità di emancipare le TIC dalla dimensione esecutiva per renderle effettivamente viatico di cultura, democrazia, emancipazione. Ma, lo sappiamo bene, tutto quanto fa spettacolo. E così affidare ai dirigenti scolastici il randello della sanzione grave è la carta che nella asfittica visione esistenziale e professionale di coloro che ci governano risponde ad esigenze di “sicurezza” e di apparente efficientismo che tengono risaputamente e ovunque a bada fette intere di popolazione. Atto finale di quel percorso di karakiri che la scuola ha intrapreso, da questo punto di vista, accettando il passaggio da preside a dirigente scolastico e snaturando – esattamente come il modo in cui è stata interpretato il percorso dell’autonomia, che avrebbe avuto premesse ben diverse e ben più promettenti – la peculiarità della scuola: come luogo fisico, come luogo simbolico, come istituzione. Interrogarsi se i dirigenti scolastici siano oggi in grado di esercitare con equilibrio la funzione che la legge affida loro è inutile.
Quello che mi è capitato di sentire, di vedere, di leggere è stata una progressiva – quanto naturale – tendenza a sopportare con minore democrazia le posizioni di dissenso, quando non a tendere ad esercitare in maniera egemonica il proprio ruolo. Notarlo non significa postulare garantismo acritico ed impunità ad oltranza; ma è indubbio che la dilatazione delle prerogative del dirigente ridimensionano le prerogative del comparto scuola rispetto agli altri comparti della PA, restringono ad una funzione più impiegatizia il ruolo del docente.
Alcuni dirigenti, solerti esecutori del Brunetta-pensiero, hanno deciso di fare della patologia del sistema (il fannullonismo, l’incompetenza, l’assenteismo, quelli che – secondo le parole di chi ci governa – rappresenterebbero i tratti distintivi della nostra professionalità) la norma, alienando alla dirigenza quel ruolo di primus inter pares, con grave nocumento per l’autonomia professionale dei docenti e diffondendo un clima di sospetto certamente contrario a quello che dovrebbe caratterizzare l’atmosfera di ogni luogo di lavoro, ma specialmente della scuola. Ma anche i dirigenti hanno i loro problemi, oltre a quello – fondamentale – di interpretare una funzione estremamente complessa, specie se non esercitata con le pistole e il cappello da sceriffo: a quando il distintivo? Le chiacchiere, quelle ci sono.
Il Codice Disciplinare per i dirigenti scolastici
Ed è proprio rivolta a coloro che non si piegano alla logica del Far West la circolare del 21 ottobre, il Codice Disciplinare per i dirigenti scolastici: criticare pubblicamente la riforma Gelmini può costare ai dirigenti fino a tre mesi di stipendio. E alzare la voce nei confronti di un genitore una multa fino a 350 euro. Stessa sanzione, da 150 a 350 euro di multa, per i capi d’istituto che andassero in giro senza cartellino di riconoscimento o che non avessero provveduto ad apporre una targa con nome e cognome davanti alla porta della propria stanza. Eccolo il distintivo! D’altra parte le dichiarazioni di Marcello Limina che – dalla poltrona dell’USR Emilia Romagna – declinava il tristissimo Gelmini-pensiero sono state eloquenti come segno di una determinazione assoluta a stroncare qualsiasi capacità critica o qualsiasi atteggiamento di dissenso. Come potrebbero imbrigliare altrimenti le menti (non sempre vigili e reattive, ma qualche volta sì; non sempre critiche e attente, ma qualche volta sì; non sempre propense alla vigilanza e all’indignazione, ma qualche volta sì) di un milione di lavoratori?
La repressione del pensiero critico si diffonde tra i docenti attraverso forme sanzionatorie rispetto alla libertà di pensiero; nei confronti degli studenti, attraverso l’impoverimento programmatico di qualsiasi funzione culturale, educativa, di sollecitazione alla cittadinanza attiva attribuita alla scuola, ridotta a collettore di saperi poveri e impoveriti dall’usura dei tagli e dalla rassegnazione dei docenti: ecco serviti consumatori acritici ed esecutori inerti in un colpo solo.
I premi e il merito
Per quanto riguarda premi e merito (altre 2 parole-cult dell’epica striminzita e meschina contenuta nella legge Brunetta), è previsto un apposito Decreto del presidente del Consiglio dei Ministri relativo ai docenti. Intanto Mary Star saluta come “giornata storica” l’inizio di una farfugliante sperimentazione – alla quale già le scuole più accorte stanno rispondendo con apposite delibere nei collegi – per nominare le scuole e gli insegnanti dell’anno (attraverso una serie di descrittori, tra cui l’indice di gradimento di famiglie e alunni, format Maria de Filippi), cui si destineranno ricchi premi e cotillons.
In questo strano Paese che non è ancora in grado – a 3 anni da un documento di Fioroni in merito – di certificare seriamente e oggettivamente le competenze degli alunni, come l’Europa chiede di fare e fa da anni – la rincorsa a misurazione che non transiti attraverso una seria cultura della valutazione (inaugurata nei sistemi scolastici di alcuni Paesi UE più di 30 anni fa attraverso studio e finanziamenti) appare un re-styling frettoloso e pericoloso. Come tener conto della differenza abissale che implica l’insegnare in una zona o nell’altra del Paese? Come non trasformare le scuole in meccanici progettifici, per essere più concorrenziali sul mercato della premialità? Come ponderare i risultati di un test Invalsi a Scampia o ai Parioli a Roma? Come evitare il diffondersi di competizione tra individui e gruppi? Non ci s’interroga, infine, sul fatto che l’”utenza”, talvolta, potrebbe non avere ragione? Basta pensare alle ristrettezze in cui gli istituti versano e ai salari degli insegnanti per intuire che la lotta sarà tra dediti al volontariato o seguaci del neoliberismo.
Che dice chi potrebbe a breve governare il Paese?
Ecco la scuola in cui viviamo, giorno per giorno. Dalle minacce secessioniste alle proiezioni neoliberiste; dall’autoritarismo strisciante alla censura della libertà di pensiero; da una premialità che finge di ignorare le condizioni in cui in molte scuole quotidianamente si svolta la giornata e che innesca una competizione senza competitività; dal superamento volontario di ogni capacità di rendere la scuola un luogo di emancipazione e di mobilità sociale, riservandole – viceversa – la funzione di blindare (attraverso il proprio corto respiro) le condizioni di partenza con una “riforma” che va a colpire soprattutto le fasce più deboli (dagli studenti dei professionali ai precari) alla rinuncia definitiva della scommessa di civiltà dell’obbligo scolastico a 16 anni: ecco la nostra scuola, oggi.
Cosa ne direbbero don Lorenzo Milani, Pierpaolo Pasolini, Piero Calamandrei e Enrico Berlinguer? È inutile chiederlo, la risposta la conosciamo già. Quello che potrebbe essere utile, oggi, è non solo domandare, ma esigere da chi potrebbe da qui a breve candidarsi a governare il Paese di dare risposte chiare e definitive a queste e ad altre questioni. Una parte del mondo della scuola ha bisogno di convincersi che – per qualcuno – cancellare questa deriva di incultura possa rappresentare una priorità.
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