L’istruzione senza risorse e le priorità da ridefinire
di Giorgio Israel
Giorgio Israel
L’unica cosa chiara della vicenda della riforma della “buona scuola” è che quella che era stata indicata fin dai primi giorni del governo Renzi come una delle priorità assolute sta passando in seconda, terza o quarta linea. Sarebbe facile parlare di una sconfitta dei propositi decisionisti e dell’ottimismo che li ispirava, ma forse, a mente fredda, sarebbe meglio considerare questi passi indietro come una necessaria resa al buon senso e al realismo.
Quando una problematica è stata resa troppo complicata - al punto che qualcuno considera addirittura la scuola italiana come irriformabile - credere di poterne uscir fuori con il metodo del taglio dei nodi gordiani, è un’illusione. Per decenni la scuola italiana è stata sottoposta a una valanga di interventi parziali, di “sperimentazioni” avventate e anche a riforme complessive, come quella Moratti, il cui impianto fortemente ideologico ha suscitato tante critiche e diffidenze da non farle mai diventare operative, con il solito sistema di bloccarne i decreti attuativi.
Frattanto, i problemi non hanno fatto che aggravarsi e incancrenirsi, in un va e vieni di decisioni dettate da pressioni corporative e da interessi elettorali, spesso in contraddizione tra loro a seconda dell’avvicendarsi dei governi, in particolare per quel che riguarda il problema del precariato, con la chiusura e la riapertura delle graduatorie che hanno gonfiato a dismisura e mai svuotato secondo un piano organico il serbatoio degli “aventi diritto”. E tutto ciò è avvenuto mentre l’unico punto fermo dello scenario è stata la quantità decrescente delle risorse dedicate al sistema dell’istruzione (inclusa l’università) a livelli di penuria che hanno pochi riferimenti all’estero. In queste condizioni, pensare di risolvere d’un colpo, con le modeste risorse disponibili, o addirittura a risorse ancora decrescenti, era ed è una pia illusione. Qualcuno nel governo aveva avventatamente motivato il ricorso al decreto legge d’urgenza come un modo per non cacciarsi nella “palude” del parlamento. Ora si parla di voler mostrare una maggiore attenzione per questa “palude”, ma sarebbe meglio riconoscere che imboccare la via delle riforme radicali significherebbe cascare dentro una palude ben più pericolosa e capace di inghiottire i più esperti esploratori.
Di fronte a un terreno ridotto a sabbie mobili la scelta più saggia è procedere a piccoli passi, sondando il terreno, seguendo un piano preciso (soprattutto se si ritiene di avere di fronte a sé un tempo di governo abbastanza lungo) e chiamando i vari attori a un atteggiamento responsabile che accetti di contemperare le varie esigenze. Pensare di risolvere il problema dei precari d’un sol colpo è velleitario: ci permettiamo di dubitare che persino al ministero abbiano un’idea del tutto precisa dei numeri e dei vari “diritti”. Inoltre - teniamo sempre sullo sfondo la questione delle risorse fisse o decrescenti - scegliere questa via significa chiudere la porta ai giovani per i prossimi dieci e venti anni, costruendo una scuola di insegnanti anziani, in barba agli slogan giovanilisti. Sette anni fa, quando si procedette a una profonda revisione del processo di formazione degli insegnanti (con il Tfa, Tirocinio formativo attivo), la prospettiva che sembrava ineludibile, anche se avrebbe creato scontentezze da tutti i lati, era una immissione graduale dei precari assieme a una immissione numericamente pari di nuove leve.
Poi si è fatto di tutto per scassare e rendere ridicolo il nuovo sistema senza affrontare in modo organico e metodico il problema delle graduatorie, e ora ci ritroviamo daccapo. Non sarebbe meglio prendere atto che non esiste alcuna altra via ragionevole? Anche senza prendere posizione sul tema del finanziamento delle scuole paritarie è fin troppo facile osservare che in una situazione di carenza di risorse - che vede scuole il cui tetto cade a pezzi, con i bagni rotti e senza i quattrini per la carta igienica - spostarne a favore delle scuole paritarie rischia di attizzare una polemica devastante che alla fine sfocerà in un conflitto tra laici e cattolici di cui non v’è affatto bisogno. È ben vero che le scuole paritarie hanno in certi casi un ruolo di supplenza, ma questo accade soprattutto a livello delle scuole dell’infanzia e delle primarie per cui, non aumentare o addirittura diminuire - tramite il proposito sconsiderato di tagliare di un anno i licei - le risorse destinate alle scuole superiori, ancora prevalentemente statali, significa lasciarle allo sbando. Insomma, molti propositi possono essere eccellenti, ma se non vi sono risorse e se, addirittura, si mette in opera una cosmetica che nasconde malamente altri tagli, è meglio guardare la realtà in faccia, essere sinceri, dire che i quattrini non ci sono - o non si vogliono dare - per l’istruzione e definire una scala di priorità. Lo stesso discorso vale per i numerosi altri temi affrontati dal progetto della “buona scuola”. Anche qui tralasciamo di entrare nel merito di certi propositi che, a nostro avviso, sono largamente discutibili: non basta parlare di “merito” perché ciò sia necessariamente un bene, se la promozione e la verifica del merito sono mal congegnate e rischiano di dar luogo a fenomeni clientelari. Il punto - ancora una volta - è che un buon sistema di valutazione costa, e non poco, e quanto più viene realizzato con i fichi secchi tanto più si adatta soltanto a nozze di infima categoria. Nessuno vuole nascondere l’esistenza di strati di docenti mal preparati e poco disposti ad aggiornarsi e a impegnarsi: ma l’impegno deve consistere nel mostrare o acquisire buone competenze nell’insegnamento delle materie di base che qualificano una buona scuola, come la matematica, l’italiano, le scienze, la storia, e non nel mascherare l’incompetenza dietro un attivismo nel promuovere i cosiddetti “progetti” che spesso consistono nel trasformare una lezione di storia o geografia in una chiacchierata a ruota libera su temi di attualità.Un discorso analogo vale per l’insegnamento delle lingue straniere e in particolare dell’inglese. Tutti sanno che abbiamo pochi insegnanti di inglese davvero competenti (per non dire delle altre lingue). Qual è allora il senso, anziché di adoperarsi a potenziare questa che è la vera priorità, lanciare il progetto dell’insegnamento in lingua inglese di una materia nell’ultimo anno delle superiori per poi ammettere che non esiste personale adatto a farlo, e trasferire il proposito al quarto e quinto anno delle elementari? È un modo di procedere che assomiglia troppo allo smercio di perline per incantare gli sprovveduti. Potremmo aprire un discorso analogo sull’edilizia scolastica, lanciata con gran rullo di tamburi e da tempo ferma al palo. Sarebbe quindi importante per il bene del Paese, della sua scuola (e anche per la salute del governo) cogliere l’occasione di questo passo indietro per una riflessione ispirata al realismo e al buon senso che parta da una chiarezza estrema sul punto cruciale: quali risorse si vogliono impegnare nella scuola? E di qui passare alla definizione di una scala di priorità