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L'Unità on line-Non sono figli di un '68 minore

Non sono figli di un '68 minore di Piero Sansonetti C'è un luogo comune, diffusissimo - anche a sinistra, anche tra le persone intelligenti - secondo il quale gli studenti occupano le scuole pe...

05/12/2001
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l'Unità

Non sono figli di un '68 minore
di Piero Sansonetti

C'è un luogo comune, diffusissimo - anche a sinistra, anche tra le persone intelligenti - secondo il quale gli studenti occupano le scuole per un unico e chiarissimo motivo: evitare le lezioni e i compiti. Non è vero, non è mai stato così. È vero che a molti studenti non piace studiare, è un fatto abbastanza naturale: ma questo non c'entra niente con il loro impegno politico. Conoscono un'infinità di modi per evitare di studiare, molto più semplici e meno faticosi delle occupazioni.
Il fatto è che a noi adulti piace semplificare al massimo i problemi complessi dei giovani. Per noi è più facile. Ci tranquillizza. E ci piace considerare quello che chiamiamo 'il disagio giovanile' come una specie di malattia - non grave - dalle cause conosciute, dal decorso conosciuto, dall'esito conosciuto. Sempre uguale, nei secoli, per tutti i ragazzi, per tutte le generazioni, per tutti i ceti. Non ci preoccupiamo di sapere perché una volta c'è il sessantotto, guidato dai giovani di tutto il mondo, e magari vent'anni dopo la gioventù è quasi reaganiana. Né di vedere la differenza tra un ragazzo al quale interessano solo le motociclette e il cellulare, e uno al quale piace solo la marijuana, e uno che fa il volontariato alla Caritas, e uno che spende tutti i soldi per comprare i libri di politica o i romanzi.
[TESTO]Per noi sono diciassettenni e basta: poi gli passa. Mi ricordo che 35 anni fa i miei professori del liceo mi dicevano che il mio essere di sinistra era dovuto solo all'inesperienza. Mi chiedevano: "Cosa sei? Anarchico, trotzkista, cinese? Tranquillo, a 22 anni ti iscriverai al Pci e a trenta sarai democristiano". Non c'era niente al mondo che mi faceva imbufalire di più: vedevo il mio pensiero disprezzato, la mia anima irrisa, ridotta a reazione ormonale. Ero sicuro che loro avessero torto e io ragione, e questo mi procurava un'enorme rabbia. Ancora adesso, se ci ripenso, mi viene voglia di prenderli a pugni.
Dieci giorni fa mio figlio quindicenne è arrivato a casa all'ora di pranzo e mi ha detto che prendeva un panino al volo, un golf e il sacco a pelo, e poi tornava a scuola perché l'assemblea aveva deciso di occupare. La scuola è il Mamiani, insieme al Tasso la più nota di Roma. Lo ho aiutato a trovare il sacco a pelo. Gli ho detto in fretta alcune cose che riguardano la droga e il sesso - ma già le sapeva - poi gli ho spiegato che quando si occupa è molto importante organizzarsi per evitare vandalismi, provocazioni, isterie. Gli ho dato anche 20 mila lire per comprare qualcosa da mangiare e lui se ne è andato. Lo ho rivisto solo 48 ore dopo. È tornato a casa per pranzo. Stremato dal sonno, e forse dalla fame, e forse da qualche spinello di troppo. Mi ha chiesto notizie sul sub-comandante Marcos, gli servivano per certe discussioni nella scuola occupata. Gli ho dato un libro recente, scritto da Ignacio Ramonet, il direttore di "Le Monde Diplomatique" e lui è stato contento. Ha preso il libro, riposato mezz'ora e poi è tornato a scuola. Aveva un turno di guardia dalle quattro del pomeriggio.
Quando io facevo il liceo non si occupavano ancora le scuole. Si iniziò l'anno dopo. A Roma una delle prime ad essere occupate, se mi ricordo bene, fu proprio il Mamiani. L'occupazione fu guidata da un ragazzetto di quinto ginnasio che si chiamava Stefano Poscia, grande oratore e ragazzo di coraggio che per circa un anno fu un vero mito per un bel pezzo di gioventù italiana. Quando facevo il ginnasio, però, ricordo la prima occupazione di università. Fu nel 1966, fine aprile: fu occupata tutta la Sapienza per protesta contro il rettore e la polizia che avevano aiutato i picchiatori fascisti del 'Fuan caravella' (i giovani del Msi). Il rettore si chiamava Papi, il commissario di polizia (è vero) Mazzatosta. I fascisti erano furiosi perché erano stati per anni i padroni delle università e ora iniziavano a perdere il controllo. Allora picchiavano gli studenti di sinistra. Uno di questi, un socialista, dopo le randellate e i pugni in pancia svenne e cadde dalla balconata di Lettere: sbattè la testa a terra e morì dopo due giorni di agonia. Aveva 19 anni, si chiamava Paolo Rossi. Scattò l'occupazione e fu un fatto clamoroso, perché era la prima volta in Italia: titoli a nove colonne sulle prime pagine. Mio fratello, che aveva cinque anni più di me, occupò.
Me la ricordo ancora la sera che si presentò a casa - nella mia bella casa borghese, di fronte alla mia famiglia borghese, cattolica, tradizionalissima, quasi ottocentesca - e disse: "Io esco e non torno a dormire: vado ad occupare l'Università". I miei genitori restarono di sasso, pallidi: gli dissero di no. Ma lui uscì lo stesso e lo rivedemmo dopo una settimana. Anch'io restai di sasso. Non me l'aspettavo. Capii all'improvviso un milione di cose. Scoprii in quei giorni che la politica ci riguardava tutti, non solo gli onorevoli, che i potenti non erano tutti buoni, che le autorità spesso baravano, che gli americani non erano babbo natale ma stavano devastando e compiendo crimini di guerra in Vietnam, e scoprii varie altre cose del genere.
C'è chi dice: "Quelle erano occupazioni serie, noi ci credevamo, rischiavamo, pagavamo un prezzo, rompevamo con la famiglia. Questi ragazzi lo fanno per gioco". È un idiozia. Anche a noi dicevano così. Dicevano: "Noi abbiamo fatto i partigiani, abbiamo messo in gioco la pelle, abbiamo preso e tirato fucilate: voi chi siete? Giocate alla politica...". A me sembrava che non fosse un male se l'Italia in vent'anni era cambiata, se era caduto il fascismo, se e a scendere in piazza si rischiavano solo manganellate e non raffiche di mitra. Era una nostra colpa se le cose erano andate così? Penso anche oggi la stessa cosa. Se a stare barricati nella scuola non si muore di paura - aspettando l'assalto della polizia o dei fascisti di Almirante e Caradonna, come succedeva a noi - perché mai ci dovremmo lamentare? E' una conquista nostra, andiamone fieri, come i nostri genitori dovevano andar fieri di avere cacciato Mussolini. E se noi in quelle notti delle occupazioni abbiamo imparato la metà delle cose buone che oggi più o meno ancora sappiamo, perché dobbiamo presumere che non sarà così anche per i nostri figli?
A meno che non ci sia dietro un piccolo complesso di colpa. Magari vago, superficiale. Di questo tipo: se il senso comune prevalente (e quasi unico) in Italia, è in contrasto 'totale' col senso comune di questi giovani (per esempio su temi come la guerra, lo sviluppo, l'economia di mercato, eccetera) è colpa loro o è colpa del nostro senso critico che da qualche anno si è pesantemente addormentato? Ma allora il problema è nostro, forse, non è dei ragazzi. Fu così anche trent'anni fa. Fummo noi a svegliare i nostri genitori che sonnecchiavano nel pensiero unico borghese e consumista degli anni cinquanta. Il problema era loro: noi li cambiammo.
L'altro giorno, quando mio figlio è venuto a dirmi che andava ad occupare la scuola, a tavola c'era anche mia madre (la stessa che nel '#8216;66 disse di no, inutilmente, a mio fratello quasi ventenne). Ha sorriso al nipotino di 15 anni e gli ha detto: "Prendi un maglione pesante che la notte fa freddo".


Presentazione del libro il 18 novembre, ore 15:30
Archivio del Lavoro, Via Breda 56 (Sesto San Giovanni).

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