«La Buona Scuola costa 3 miliardi. All’Università basterebbe un decimo»
Il capo dei rettori Paleari: «Con 300 milioni in più raddoppierebbero i ricercatori e ci sarebbero borse di studio per tutti. Invece anche quest’anno tagli per cento milioni»
Orsola Riva
I 6,9 miliardi destinati a finanziare il sistema universitario quest’anno arriveranno agli atenei con largo anticipo. «Ho firmato il decreto con i criteri di ripartizione del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) delle Università statali - ha detto oggi il Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini -. Rispetto allo scorso anno saremo in grado di inviare il finanziamento agli atenei con sei mesi di anticipo, a giugno anziché a dicembre».
Sei anni di tagli
Soddisfatti per l’anticipo, i rettori non nascondono però la propria amarezza per il fatto che anche quest’anno il conto finale sia negativo. «Io dico che con questi numeri il ministro Giannini non poteva fare di più ma la coperta è ormai davvero troppo corta - dice il presidente della Conferenza dei rettori italiani Stefano Paleari -. L’impostazione generale è positiva: in particolar modo il peso relativo della quota premiale e del cosiddetto costo standard (che punta ad agganciare la dote a cui ha diritto ciascun ateneo al numero di corsi di laurea che ha acceso, a quanti sono i suoi studenti e docenti e al rapporto fra gli uni e gli altri, ndr). Ma quest’anno le università italiane perderanno altri 87 milioni, che diventano quasi cento se si considerano i soldi che sono stati stanziati per aumentare il numero delle borse di specializzazione medica: soldi che saranno pescati dal capitolo borse di studio post-universitarie, dottorati e assegni di ricerca, mentre i tagli annui accumulati a partire dal 2009 sono di oltre 800 milioni di euro». Un’emorragia di soldi che condanna il nostro sistema universitario a non poter più reggere il confronto internazionale: se sei anni fa il FFO rappresentava lo 0,49% del Pil, oggi siamo scesi allo 0,42% contro lo 0,99% della Francia e lo 0,93% della Germania. «Abbiamo 12 professori ordinari con meno di 40 anni e squilibri che si stanno accumulando. Ogni anno sforniamo 10 mila dottori di ricerca e assumiamo 1.000 ricercatori - osserva ancora Paleari -. Ma che senso ha formare i nostri giovani, il nostro capitale umano fino al dottorato e poi perderne 9 su dieci per strada?».
Il rebus della valutazione delle università
Entrando più nel dettaglio, l’FFO 2015 vale 6,923 miliardi. È prevista una quota base (4,9 miliardi) da ripartire per il 75% su base storica e per il 25% in relazione al costo standard per studente; 1,385 miliardi vengono distribuiti in base alle performance degli atenei: i risultati della ricerca scientifica pesano per il 65%, quelli delle politiche di reclutamento per il 20%, i risultati della didattica per l’8%, la capacità di favorire la mobilità degli studenti e la partecipazione a programmi di studio all’estero per il 7%. Ma è proprio sul delicato capitolo della premialità - 1,38 miliardi da distribuire «in base alle performance degli atenei» - che si concentrano le critiche di una parte del mondo accademico. In assenza di un criterio ufficiale per valutare la didattica, il sistema prende attualmente in considerazione innanzitutto i risultati della ricerca scientifica, che «pesano» appunto per il 65%. Ma il criterio squisitamente bibliometrico-quantitativo utilizzato per misurare la qualità della ricerca, la cosiddetta Vqr (Valutazione della qualità della ricerca), non raccoglie consensi unanimi. Tutt’altro.
Costo standard e diritto allo studio
Per Paleari la Vqr è un «canone» senz’altro perfettibile e che andrebbe aggiornato (il rapporto si riferisce al periodo 2004-201o, quindi - parametrato con l’orologio della ricerca - è già vecchio) ma è pur sempre un primo passo per la valutazione delle nostre università. Il presidente della Crui ci tiene soprattutto a difendere il principio del costo standard per studente: «Dai dati raccolti infatti risulta falso che esso penalizzi le università su base territoriale, come alcuni temevano dando per scontato che negli atenei del Sud ci fossero più dipendenti in rapporto agli studenti che al Centro e al Nord, come succede in altri settori della pubblica amministrazione,dalla Sanità agli enti locali. Semmai quello che crea disparità fra il Nord e al Sud è il diritto allo studio». Attualmente infatti le università italiane riescono a coprire a malapena il 70 per cento delle richieste degli aventi diritto su base nazionale. Ma qui lo squilibrio fra Nord e Sud invece è fortissimo. «Io sono un ingegnere - dice ancora Paleari - e noi siamo abituati a lavorare sui valori assoluti ma anche sugli ordini di grandezza. Bene, io dico a questo governo che se la Buona Scuola costa 3 miliardi l’anno e la sentenza della Consulta sulla riforma delle pensioni ne costerà più di due, a noi basterebbero 300 milioni per poter raddoppiare il numero di ricercatori portandoli a duemila e aiutare a studiare tutti quelli che lo meritano. Perché quella per il diritto allo studio è la madre di tutte le battaglie: da qui passa l’unità incompiuta del Paese». Se la coperta è corta, la responsabilità non è tanto del ministro - lascia capire Paleari - quanto dell’esecutivo e in ultima istanza da chi lo guida. «Come rettori abbiamo invitato il presidente del Consiglio Matteo Renzi a un confronto pubblico a Udine il prossimo 5 luglio. Confidiamo che chi dice che vuole cambiare il Paese e pensa che l’università sia il solo ascensore sociale e il vero volano per rilanciare la crescita del Paese non voglia perdere quest’occasione».