La cattiva scuola
Ora questo pensiero così povero sul piano educativo ma così denso sul piano della ridefinizione dei poteri viene rivestito con strumenti giuridici che modificheranno radicalmente il sistema scolastico
Mauro Boarelli
. Il metodo è il merito
Il progetto “La buona scuola” presentato con grande enfasi nel mese di settembre da Renzi in persona inizia a diventare realtà attraverso una serie di provvedimenti legislativi. Il primo è un disegno di legge sulla cui natura è bene soffermarsi, perché il metodo e il merito sono strettamente intrecciati.
La prima parte del disegno è quella che sarà di immediata applicazione una volta concluso l’iter parlamentare. Riguarda l’autonomia scolastica e i poteri dei dirigenti, il sistema di reclutamento dei docenti, la stabilizzazione dei precari (drasticamente ridimensionata rispetto ai roboanti proclami iniziali), l’alternanza scuola-lavoro, l’estensione del “cinque per mille” alle istituzioni scolastiche e l’introduzione di una nuova forma di finanziamento alle scuole private sotto forma di detassazione delle erogazioni liberali. Nelle intenzioni del Governo questa parte doveva essere oggetto di un decreto legge, e l’obiettivo era stato illustrato con i consueti toni sprezzanti: “Lo strumento del decreto ci consente di fare tutto in fretta, perché siamo stanchi di queste riforme annunciate ad inizio legislatura, e poi vanno in Parlamento e si perdono nella palude parlamentare e quindi non si conclude mai una riforma utile della scuola. Faremo un decreto, ci sta dentro tutto quello che reputiamo essere utile per la scuola in Italia [....].” (Davide Faraone, sottosegretario all’istruzione, alla trasmissione di RadioTre “Fahrenheit” del 13 febbraio 2015). La retromarcia non deve stupire. Le proteste contro questo vero e proprio colpo di mano non devono avere impensierito più di tanto il Presidente del consiglio, abituato ad abusare della decretazione d’urgenza in misura ancora più marcata rispetto ai suoi predecessori. Stavolta, però, ha deciso con cinismo e spregiudicatezza di scaricare le responsabilità sul Parlamento, al quale è stato rivolto un vero e proprio ricatto: se non sarà in grado di approvare il disegno di legge in tempi brevissimi si assumerà la responsabilità di compromettere l’assunzione di centomila precari e di impedire che, finalmente, la scuola “cambi verso”, e a quel punto il governo sarà costretto – suo malgrado, naturalmente – a sostituirsi a un organo inaffidabile e inadempiente adottando un decreto legge.
Nell’arco di poche settimane il Parlamento dovrebbe esaminare un provvedimento molto ampio e complesso che riguarda praticamente tutti gli aspetti dell’ordinamento scolastico. Infatti, la seconda parte del disegno di legge dispone una delega al Governo a legiferare su una lunghissima serie di argomenti: autonomia scolastica, abilitazione all’insegnamento, organi collegiali, istruzione tecnica e professionale, sistema integrato di istruzione 0-6 anni, diritto allo studio, valutazione degli studenti, e altro ancora. Sullo strumento della delega, la Costituzione è molto chiara: “L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti” (art. 76). In questo caso, non solo l’oggetto non è delimitato (è la scuola, tutta intera, ad esserne investita), ma neanche i “principî e criteri direttivi” sono specificati. Il lungo elenco che dovrebbe definirli con precisione è in realtà una pura e semplice articolazione (e quindi una ulteriore espansione) delle materie delegate. La combinazione tra un disegno di legge sotto ricatto governativo e una delega in bianco senza confini mostra ancora una volta il lucido disegno di trasferire il potere legislativo al Governo. Stavolta questo esercizio di stravolgimento dell’ordinamento istituzionale raggiunge un’intensità e un’estensione smisurate su uno dei terreni più delicati per la formazione civile e la coesione sociale: la scuola pubblica.
2. L’obbedienza è (di nuovo) una virtù
L’orizzonte culturale che produce questo smantellamento delle istituzioni democratiche si riflette inevitabilmente nel contenuto del disegno di legge. Non a caso il suo asse portante è il governo delle istituzioni scolastiche. La parte relativa alla delega ne prevede una riforma radicale da realizzare attraverso l’autonomia statutaria, il rafforzamento dei poteri del dirigente scolastico e la ridefinizione delle competenze degli organi collegiali, ai quali verranno riservati solo compiti di indirizzo. Non è una novità, ci avevano già provato più volte. La primogenitura spetta a Valentina Aprea, sottosegretaria all’istruzione durante il ministero Moratti, poi presidente della Commissione cultura e istruzione della Camera. In questa veste, nel 2008, presentò una proposta di legge che modificava in modo radicale quella che ora – nel linguaggio alla moda infarcito di anglicismi – viene chiamata governance. Qualche anno più tardi anche il Partito democratico si invaghì di quel progetto al punto di farlo proprio dopo averlo emendato (solo provvisoriamente, come vedremo tra poco) da qualche aspetto all’epoca ritenuto troppo “estremo”. Ne nacque il disegno di legge Aprea-Ghizzoni, dal nome della deputata del Pd che aveva preso il posto della sua collega berlusconiana alla guida della commissione. Questo testo concepito dal centrodestra e adottato con poche varianti dal centrosinistra è un esempio da manuale del trasformismo che, adattato alle diverse situazioni storiche, continua a rappresentare un elemento strutturale della vita politica nel nostro paese. Arrivata a un passo dall’approvazione sul finire della legislatura (il governo era presieduto da Monti) grazie al tentativo maldestro di trasferire la potestà legislativa alla commissione stessa saltando il dibattito parlamentare (il renzismo, si sa, è nato prima di Renzi), la proposta finì in un cassetto a causa di una protesta molto ampia che mise in seria difficoltà il Pd alla vigilia della campagna elettorale. Ora viene rispolverato: la parte della delega che affronta in modo sommario questo argomento riecheggia in maniera chiarissima i suoi punti chiave. Ma evidentemente la legge delega non basta a placare l’appetito dei voraci legiferatori-lampo. E così un aspetto cruciale della futura governance viene anticipato nella prima parte del disegno di legge, quella che avrà un’attuazione immediata. Si tratta del potere dei dirigenti scolastici, che viene ampliato grazie al declassamento degli organi collegiali – ridotti a organi consultivi – e all’attribuzione di nuove funzioni: la gestione direzionale, organizzativa e di coordinamento, la gestione delle risorse finanziarie, la responsabilità delle scelte didattiche, la distribuzione degli incentivi economici agli insegnanti e – infine – la loro assunzione sulla base di un organico territoriale.
L’assunzione dei docenti rappresenta un cambiamento radicale che avrà conseguenze enormi sul sistema scolastico. È bene affrontare questo punto partendo da uno sguardo critico sul sistema attuale. È infatti innegabile che il meccanismo centralizzato che assegna i docenti alle scuole in modo “automatico” sulla base dei punteggi nelle graduatorie produce effetti negativi a tutti noti: basti pensare alla girandola di insegnanti cui viene sottoposta tutti gli anni una moltitudine di studenti, senza alcun rispetto per le loro esigenze e senza alcun riguardo per la continuità didattica. E si pensi all’impotenza di ciascuna scuola di fronte all’assegnazione di docenti del tutto inadeguati al loro ruolo, che rappresentano purtroppo una porzione non trascurabile dell’intero corpo docente. In sostanza, per essere credibile, la critica alla riforma del sistema di reclutamento non può prescindere da una critica del sistema vigente e dalla consapevolezza che l’illusione di mandare finalmente in soffitta meccanismi distorti e densi di ricadute negative sulla vita scolastica produrrà senza alcun dubbio un grado elevato di consenso intorno al provvedimento governativo.
In realtà le sue conseguenze saranno nulle sul piano della qualità didattica e nefaste sotto molti altri aspetti. I dirigenti potranno assumere gli insegnanti di cui hanno bisogno, ma il sistema di formazione e reclutamento rimane saldamente in mano al Ministero che lo amministra con criteri che non garantiscono alcuna selezione di tipo qualitativo. E chi sono i dirigenti che si troveranno a reclutare i docenti? Sono, a loro volta, adeguatamente preparati e selezionati su una base rigorosamente qualitativa? Sono in grado di riconoscere la qualità dei docenti che andranno a scegliere? È lecito dubitarne. I (pochi) dirigenti “illuminati” cercheranno di assumere i migliori docenti disponibili sul territorio, e questo sarà un passo decisivo verso la definitiva cristallizzazione di un sistema basato su scuole di serie A di serie B (che in parte già esiste). Ma, in generale, il rischio è che i criteri prevalenti siano altri. Ad esempio: che atteggiamento avrà un dirigente di fronte a un docente critico nei confronti dei test Invalsi, dal momento che quello stesso dirigente è chiamato in modo sempre più stringente a rendere conto al Ministero dei risultati della sua scuola sulla base di quei test e del sistema di valutazione predisposto dallo stesso istituto? Non sarà spinto a reclutare il maggior numero possibile di insegnanti che quel sistema condividono o accettano passivamente? Non sarà preferibile per lui avere al suo fianco docenti che collaborino perché la valutazione dell’istituto e i risultati dei test degli studenti siano positivi, docenti che per raggiungere questi obiettivi siano disponibili anche a orientare la loro didattica verso l’addestramento ai test? È un esempio tra i tanti possibili, ma va diritto al cuore del problema: il nuovo sistema di reclutamento mette in pericolo la libertà di insegnamento. Sono molte le strade che conducono verso questo esito. La cultura aziendalista e competitiva che orienta la formazione e la selezione dei dirigenti, la loro sempre più accentuata subordinazione gerarchica al Ministero, l’obbligo a rendere conto dei risultati secondo regole di valutazione standardizzate e prevalentemente quantitative: questi elementi hanno preparato il terreno, e ora ai dirigenti vengono dati gli strumenti giuridici perché possano dispiegare pienamente i loro effetti. Si tratta di strumenti potenti: i dirigenti potranno assumere oppure non assumere, e non è poco. Ma potranno anche licenziare senza neanche motivarlo. Non è scritto così, naturalmente, ma questo è il senso della norma secondo cui il dirigente attribuisce incarichi di docenza triennali, una norma che introduce nella scuola la pretesa neoliberista di ridurre il lavoro a condizione permanente di precarietà e di ricatto.
Inoltre, non bisognerebbe dimenticare qual è il sostrato culturale sul quale andrebbe a incidere l’assunzione diretta da parte dei dirigenti. In un paese dove sono radicati il nepotismo, il clientelismo, la pratica della raccomandazione, la corruzione, non è difficile immaginare una rapida e incontrollabile degenerazione del sistema.
L’idea dell’assunzione diretta non è nuova. Il tentativo di tradurlo in una norma giuridica si deve ancora una volta alla versione originaria del progetto Aprea, che prevedeva un concorso di istituto. All’epoca il Pd era assolutamente contrario anche a questa versione più “morbida”. Qualche tempo più tardi Francesca Puglisi – allora come oggi responsabile scuola del Pd – imbarazzata dal fatto che le critiche al progetto Aprea-Ghizzoni colpissero nel segno mettendo in evidenza le molte somiglianze con la proposta originaria del centrodestra, rivendicò come un successo del proprio partito avere cancellato quell’ipotesi nella nuova versione: “Ci siamo confrontati […] chiarendo la nostra indisponibilità a trasformare le scuole in fondazioni, ad assumere gli insegnanti attraverso la “chiamata diretta”, a far entrare logiche di mercato nel sistema dell’istruzione, a lasciare tutto il potere gestionale ai dirigenti scolastici” (“L’Unità”, 27 marzo 2012). La coerenza non abita da quelle parti, e nemmeno il pudore.
3. Una questione di democrazia
Il disegno di legge traduce fedelmente la filosofia del piano “La buona scuola” che avevamo commentato su questa rivista (La “buona scuola” e i cattivi maestri). Anche in quel testo manca qualsiasi riflessione pedagogica e didattica: la scuola è solo materia da plasmare attraverso strumenti organizzativi e strutture di comando. Ora questo pensiero così povero sul piano educativo ma così denso sul piano della ridefinizione dei poteri viene rivestito con strumenti giuridici che modificheranno radicalmente il sistema scolastico. Il prodotto principale di queste norme è la strutturazione di un rigido sistema gerarchico che fa perno sul dirigente, dotato di poteri assoluti ma, a sua volta, sottoposto a una rigida subordinazione rispetto al Ministero. Si tratta di un processo che porta all’estremo l’autoritarismo dello Stato dislocando i suoi poteri anche in periferia: dove prima poteva contare sulla penetrazione di una burocrazia tentacolare e asfissiante ma inevitabilmente perdente nella pretesa di dominare la vita quotidiana delle istituzioni scolastiche e dei singoli docenti, ora si affida a un controllo capillare più efficace perché affidato a una pluralità di strumenti di valutazione e di organizzazione amministrati direttamente in loco. La scuola statale si separa progressivamente (e in modo sempre più accelerato) dalla sua funzione pubblica. Se l’operazione avrà successo, scuola statale e scuola pubblica cesseranno di essere sinonimi, ammesso che lo siano mai stati davvero.
Questo processo di centralizzazione è strettamente collegato agli altri processi in atto sul piano istituzionale: lo scippo del potere legislativo da parte del Governo, la (falsa) abolizione delle province e la loro trasformazione in enti di secondo livello amministrati da rappresentanti non eletti, il processo analogo che porterà presto alla riforma del Senato, la proposta di una legge elettorale iper-maggioritaria, l’ipotesi di affidare il governo della televisione pubblica a un amministratore unico di nomina governativa. L’elenco potrebbe continuare con altri esempi, tutti riconducibili a una medesima ideologia che sta ridisegnando – al centro come in periferia – il rapporto tra i cittadini e lo Stato.
La scuola pubblica non poteva restarne immune, non solo perché è anch’essa un’istituzione – e come tale deve essere ricondotta dentro una visione unitaria e coerente dei poteri dello Stato – ma anche perché è l’istituzione delegata a garantire la riproduzione sociale di quell’ideologia e – diversamente dal passato – non deve più esserle permesso di lasciare spazio a un pensiero critico in grado di demistificarla.
da "Gli asini"