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La crisi delle università al Sud In dieci anni hanno perso quasi 45 mila nuovi iscritti

È come se fossero sparite — insieme — l’Università di Palermo, la Seconda università di Napoli, quella del Molise, della Basilicata e di Foggia

26/05/2015
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Corriere della sera

È come se fossero sparite — insieme — l’Università di Palermo, la Seconda università di Napoli, quella del Molise, della Basilicata e di Foggia. Considerando, per tutte, non solo gli studenti che hanno messo piede per la prima volta, ma anche i già iscritti e quelli sulla soglia della laurea.
Rispetto a un decennio fa per i corsi di laurea triennali mancano all’appello quasi 87 mila immatricolati. Lo rivelano i dati dell’Anagrafe degli studenti del ministero dell’Istruzione. Rispetto al 2004/2005 nell’anno accademico in corso i diplomati che hanno deciso di proseguire gli studi sono calati del 27,5%. Su base nazionale. Perché tra le regioni la fotografia è ancora più drammatica. Soprattutto per il Sud. Abruzzo -56%, Molise -52,3%, Sicilia -50,7%, Basilicata -49,4%, Calabria -43,8%.
Il dato attuale è negativo anche se confrontato con quello di cinque anni fa: ma in questo caso è la Basilicata a fare peggio di tutte (-37,6%) seguita da Molise (-31,7%) e Sicilia (-25,3%). Va però «meglio» rispetto a un anno fa: a livello nazionale la diminuzione è di «appena» lo 0,7%, con il Meridione che registra, ancora una volta, i ribassi più evidenti.
«Ma non scateniamo il dibattito Settentrione contro Meridione», premette Stefano Paleari, numero uno dell’Università di Bergamo e presidente della Crui, la conferenza dei rettori italiani. «Il dato conferma un paio cose», continua. La prima: «Per questo Paese il sistema accademico non sembra essere una priorità». La seconda: «Le immatricolazioni sono una fotografia del territorio. Se calano al Sud è perché aumenta il divario economico con il Nord». Insomma: gli iscritti sono sempre meno e quei pochi vanno dove sentono di avere più possibilità lavorative. Cioè più su. «E a loro volta, i giovani del Nord vanno fuori, in Svizzera e Inghilterra», aggiunge Roberto Lagalla, rettore dell’Università di Palermo.
La «fuga» dal Meridione, secondo Lagalla, è sotto gli occhi di tutti. «Anche se negli ultimi tre anni nel mio ateneo — precisa — il dato si è stabilizzato». Ma il calo ha diverse cause. «Innanzitutto la discesa del numero nazionale degli immatricolati — ragiona — che al Meridione è più pesante perché molti dei nostri diplomati non vanno avanti». «Poi c’è la riorganizzazione dei corsi: sono sempre più quelli ad accesso programmato». Quindi le direttive di Roma «che ci chiedono di rispettare il rapporto docenti-studenti e che ci costringe a non iscrivere ragazzi alle lauree più appetibili e, invece, ad averne altre quasi deserte».
Per non parlare dell’aspetto economico. «Le politiche per il diritto allo studio in Italia sono insufficienti», denunciano il presidente della Crui e Lagalla. «E in Sicilia non abbiamo nemmeno una legge regionale su questo tema», sottolinea il rettore di Palermo.
«Da sei anni i fondi agli atenei sono in calo e nel 2015 arriveranno ancora meno soldi», calcola Paleari. E ribadisce che «per il meccanismo dei costi standard le università che hanno meno iscritti riceveranno meno soldi: un circolo vizioso che può aggravare la situazione».
Questi numeri autorizzano a riaprire il dibattito sulla chiusura di qualche ateneo? «Attenzione a non “desertificare” ulteriormente il territorio», avverte il rettore dell’istituzione siciliana. «Eppoi, a dirla proprio tutta, nella nostra regione ci sono tre università statali, in qualche altra, più piccola, anche quattro. Se vogliamo “sfoltire” diamo un’occhiata all’intero Paese». «In realtà i dati sulle immatricolazioni ci dicono che vengono premiati i sistemi territoriali con più università che collaborano e competono allo stesso tempo», dice Paleari. «Quindi più della chiusura ha senso ragionare su come creare un “distretto degli atenei”. E di come riportare nelle aule gli studenti».

lberberi@corriere.it

 


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