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La pessima fine di una cattiva riforma della scuola

25/06/2015
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Internazionale

 

Girolamo De Michele, insegnante e scrittore

 

Partiamo dai contenuti della legge, così come sono articolati nel maxiemendamento presentato alla proposta di riforma della scuola. Leggete questo elenco di deleghe, che corrisponde al comma 178 del disegno di legge:

  • Riordino delle disposizioni normative in materia di sistema nazionale di istruzione e formazione.
  • Riordino, adeguamento e semplificazione del sistema di formazione iniziale e di accesso ai ruoli di docente nella scuola secondaria, in modo da renderlo funzionale alla valorizzazione sociale e culturale della professione.
  • Promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità e ridefinizione del ruolo del personale di sostegno.
  • Revisione dei percorsi dell’istruzione professionale.
  • Istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita fino ai sei anni, al fine di garantire a tutti i bambini e le bambine pari opportunità di educazione, istruzione, cura, relazione e gioco, nonché al fine di garantire la conciliazione tra tempi di vita, di cura e di lavoro dei genitori.
  • Garanzia dell’effettività del diritto allo studio su tutto il territorio nazionale, nel rispetto delle competenze delle regioni in materia, attraverso la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni.
  • Promozione e diffusione della cultura umanistica, valorizzazione del patrimonio e della produzione culturali, musicali, teatrali, coreutici e cinematografici.
  • Revisione, riordino e adeguamento della normativa in materia di istituzioni e iniziative scolastiche italiane all’estero.
  • Adeguamento della normativa in materia di valutazione e certificazione delle competenze degli studenti, nonché degli esami di stato, anche in raccordo con la normativa vigente in materia di certificazione delle competenze.

Su tutte queste materie il governo chiede una delega in bianco per poter riformare, nei fatti, l’intera scuola senza rispondere a nessuno.

La famosa volontà di confronto, il parlamento che “si è messo in ascolto” (come ha detto Marco Rossi Doria, riciclando un’espressione di Manuela Ghizzoni), finisce davanti a questo muro: quale volontà di discussione c’è se i criteri di riforma sono tenuti nascosti nei cassetti in attesa della delega?

Dal punto di vista della forma – che in diritto è sostanza – stiamo parlando di una legge di spesa che viene portata in parlamento senza il parere della commissione, e di una richiesta di fiducia su nove deleghe. Il minimo che si possa dire, è che sarà l’occasione buona per vedere se c’è un presidente della repubblica garante della costituzione.

Tolte le deleghe, cosa resta? Ben poco: quel che c’è sembra un sacco di bella roba, e invece, come in certi mercatini in cui vai per fare l’affare e prendi una sòla, è solo fuffa. La buona sòla, appunto.

Le assunzioni

Si tratta di un obbligo giuridico a cui il governo deve in ogni caso ottemperare, pena non solo oltre centomila ricorsi, ma anche una multa dalla Commissione europea. Stiamo parlando di lavoratori che hanno maturato il diritto al contratto a tempo indeterminato.

Dicono: senza riforma non è possibile assumere. Falso: questi 160mila precari sono già interni alla scuola, lavorano ogni anno da settembre a giugno. Nel dettaglio: i posti disponibili per nuove assunzioni sono 53.037, cui si aggiungono le circa 125mila supplenze annuali attivate lo scorso anno, per un totale di 178mila posti.

Chi dice che senza riforma non si assume mente. Non a caso chi lo dice è costretto a citare, pur di avere uno straccio di fonte, quel Max Bruschi braccio destro di Mariastella Gelmini.

Francesca Puglisi, responsabile scuola nel Partito democratico, ai tempi di Gelmini chiedeva “un piano di immissioni in ruolo che preveda la stabilizzazione di quei docenti precari che stanno lavorando oggi su posti vacanti. Per quegli insegnanti lo stato paga già le ferie non godute e la disoccupazione: è per questo che diciamo che stabilizzarli non costerebbe un euro in più allo stato” (qui, dal minuto 3.30).

Fine delle classi pollaio

Le classi pollaio sono classi nelle quali gli studenti sono anche 29 o 30, nelle quali la didattica è improbabile, se non impossibile. Nelle quali sono violate le norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro: in caso di terremoto, incendio, crollo o altra emergenza, quattro o cinque dei presenti non hanno la certezza di uscire in tempo (chi scrive ha vissuto tre terremoti nella sua carriera scolastica, e sa cosa vuol dire portare in sicurezza una classe giù per le scale esterne, trovandole ingombre di motorini parcheggiati “per venire incontro ai bisogni dell’utenza”, o fermare una scolaresca terrorizzata in fuga nel corridoio di un edificio del seicento).

Le classi pollaio sono state create con il Dpr 81/2009 (con l’occasione: grazie, presidente Napolitano, per aver firmato quel decreto che poteva rimandare indietro con lettera motivata, riconoscendogli il carattere straordinario di necessità e urgenza).

Questa norma non viene abrogata. Viene data facoltà di deroga al dirigente scolastico (una deroga alla deroga di una legge!); e questo non nell’ambito della sicurezza sui posti di lavoro, ma “nell’ambito dell’organico dell’autonomia assegnato e delle risorse, anche logistiche, disponibili”.

Basta che un dirigente non abbia facoltà di creare dal nulla qualche nuova aula, o che, più realisticamente, i fondi disponibili siano insufficienti, e le classi pollaio, che restano la norma, ricompaiono.

Alternanza scuola-lavoro

Cioè meno tempo per la didattica, e più per attività lavorativa gratuita sotto varie forme di apprendistato. Perché, dicono, la disoccupazione è causata non dalla crisi, ma dal mancato raccordo tra scuola e lavoro.

Così, per creare questo raccordo, cominciamo a educare gli studenti al lavoro gratuito, che fa curriculum. Dai tempi in cui don Milani pretendeva una scuola che insegnasse a leggere il contratto nazionale di lavoro nel quale sono scritti diritti e doveri, a una scuola che educa al fatto che il lavoro è un favore che ti fa il padrone.

Del resto, lo aveva detto in tempi non sospetti Renzi, che don Milani era un modello da mettere in discussione

Più soldi alla scuola

I ministri Gelmini e Tremonti hanno tolto alla scuola oltre otto miliardi in tre anni, cui vanno aggiunti circa tre miliardi all’anno dal 2012, con l’entrata a regime dei tagli. Più il blocco del contratto, e quindi dell’adeguamento del salario al costo della vita.

Quello che viene ora messo nelle casse della scuola è una minima parte di quella cifra (per di più, è anche falso che questo governo abbia smesso di tagliare fondi alla scuola). Più il blocco del contratto, e quindi dell’adeguamento del salario al costo della vita. Di tutto questo ci viene restituita una miseria, e pretendono anche di non darci voce in capitolo su soldi presi dalle nostre tasche.

La valutazione

Come ogni volta che un governo ne parla, non viene detto quale valutazione, con quali criteri, secondo quali modelli.

Il tutto, senza una sola parola di confronto – se non la menzogna degli insegnanti “che non vogliono essere valutati” – con le decine di titoli, delle centinaia di ore di convegni pubblici, delle migliaia di pagine scritte, prodotte dal mondo della scuola sull’argomento (qui, nota 9), mentre i sistemi di valutazione messi in atto in questi anni in Europa e Stati Uniti mostrano tutti i loro limiti: stiamo adottando la mela bacata che altri paesi cominciano a rifiutare, e che nondimeno ci viene offerta.

Fare una torta per riciclare le mele che stanno andando a male può essere indice di parsimonia: offrirla agli ospiti è segno di scarso rispetto.

Il dirigente-sindaco

Un preside che si avvale di poteri risalenti all’epoca fascista, come la chiamata diretta degli insegnanti: meglio chiamarlo dirigente-podestà. Che gode già ora di poteri enormi, ai quali si aggiungono il potere di assumere e, di fatto, non rinnovare gli insegnanti, e il potere di premiarne il cosiddetto merito.

E un ruolo di direzione, gestione, organizzazione e coordinamento: un Leviatano in sedicesimo, un dirigente-manager che amministra la scuola come fosse un’azienda, e attua un vero e proprio pactum subjectionis tra sé e gli altri lavoratori della scuola, cui fa da pendant la fine di ogni residuo di collegialità e di discussione pubblica.

Con buona pace della retorica sul “merito”: perché non ci vuol molto a capire che, in una situazione di semionnipotenza, non i “migliori” o “capaci” (che in genere sono invisi a chi esercita il potere), ma i più accondiscendenti e servili saranno premiati sulla base di criteri ad hoc che consentiranno al dirigente di legittimare la propria scelta, e di essere legittimato dai propri valutatori.

Lo squilibrio del balance tra diritti e doveri (che sarebbe anche scritto nella costituzione, ma tant’è…) è il segno distintivo dell’autoritarismo: e infatti il tanto reclamizzato licenziamento del dirigente incapace non trova traccia in questo testo di legge – persino il “riordino delle modalità di assunzione e formazione del dirigente scolastico” è stato cancellato.

Quanto al carattere incostituzionale dell’assunzione per chiamata diretta, Francesca Puglisi (che su quelle parole si era presentata agli elettori, ai quali deve costituzionalmente rispondere – non a Renzi, non al Pd: agli elettori), quando la regione Lombardia per prima la propose, la definì antincostituzionale (qui il video).

I finanziamenti alle scuole private

Stiamo parlando dell’ennesima capriola semantica per violare un articolo costituzionale che dice inequivocabilmente “senza oneri per lo stato”.

Si tratta nei fatti di una svendita della scuola ai privati. Con le parole dell’insegnante Giovanni Cocchi (qui, al minuto 23.55), “se passa questo, la cosa inevitabile è che ci saranno molte scuole private, poche scuole bellissime nei centri storici di alcune grandi città, molte scuole brutte e povere nelle periferie. E succederà quello che avevamo superato da decenni, quello che diceva don Milani: e cioè che il figlio del dottore farà il dottore, il figlio dell’operaio o dell’impiegato farà l’operaio o l’impiegato. È un salto all’indietro mostruoso” – almeno per chi non può lasciare la scuola di periferia per una poltrona al ministero.

Qual è stata la risposta di Renzi? Non partecipare a un programma televisivo nel quale sarebbe stato costretto a confrontarsi con questo insegnante.

Renzi, il Pd, Francesca Puglisi, la ministra Stefania Giannini, il sottosegretario Davide Faraone hanno delegittimato in ogni modo possibile un movimento di protesta che rappresenta oltre l’80 per cento del mondo della scuola, per poi recitare la parte delle vittime.

Hanno cercato di ridurlo prima a movimento sindacale, riconducendo la pluralità sindacale a “un solo sindacato”, salvo trovarsene contro 23, cioè tutti; poi a specchietto per le allodole di una minoranza interna, salvo scoprire che gli insegnanti non hanno legittimato i vari Fassina come loro rappresentanti, e li hanno fischiati nella stessa misura in cui hanno fischiato Giannini, Renzi e Puglisi.

Hanno delegittimato l’esercizio del diritto di critica politica costituzionalmente garantito con termini quali “squadrismo”, “centri sociali” e via dicendo. Hanno rifiutato di confrontarsi con la Legge d’iniziativa popolare.

Sono andati allo scontro alla camera, hanno blindato le audizioni nelle commissioni, fino a impedire alla senatrice Maria Mussini, prima firmataria della legge, di trasferirsi nella VII commissione per partecipare ai lavori in senato.

Hanno ammesso come unica forma di mediazione possibile una trattativa interna alle correnti, quasi che la scuola fosse “cosa loro”. Hanno impedito la discussione in senato, prima in commissione, poi con la fiducia, in aula. Manca solo l’aula sorda e grigia, ma al peggio non c’è mai fine.

Matteo Renzi a Porta a porta (al minuto 1.18.50) aveva garantito che con tre miliardi si mettevano in sicurezza le scuole. È bastato un solaio crollato su due studenti e una maestra, per scoprire che la cifra era sottostimata: di miliardi ne servono dodici. La differenza è uguale a quella tra una scuola nella quale il diritto alla vita è o non è garantito.

Matteo Renzi ha garantito la sicurezza delle scuole con tre miliardi, e non era vero: comprereste un’auto da quest’uomo? Gli dareste fiducia? E se no, perché dovremmo dargliela su una scuola usata spacciata per nuova?


Presentazione del libro il 18 novembre, ore 15:30
Archivio del Lavoro, Via Breda 56 (Sesto San Giovanni).

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