La scuola che piace a Confindustria
La “riforma” della scuola si basa sulla errata convinzione che l’elevata disoccupazione giovanile in Italia dipenda dal fatto che il nostro sistema formativo non offre competenze adeguate a quelle richieste dalle imprese. Come già sperimentato, dequalificare la forza-lavoro per favorire un modello economico produttivo a bassa intensità tecnologica è controproducente per l’occupazione e la crescita della produttività del lavoro.
Guglielmo Forges Davanzati
Nel documento preparatorio della “riforma” della Buona scuola, il Governo propone questa diagnosi della disoccupazione giovanile in Italia: “Il 40% della disoccupazione in Italia non dipende dal ciclo economico. Una parte di questa percentuale è collegata al disallineamento tra la domanda di competenze che il mondo esterno chiede alla scuola di sviluppare, e ciò che la nostra scuola effettivamente offre”. In sostanza, si ritiene che l’elevata (e crescente) disoccupazione giovanile in Italia sia imputabile a fenomeni di mismatch, ovvero di mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro, a sua volta riconducibile al fatto che il nostro sistema formativo non offre competenze adeguate a quelle richieste dalle imprese. Sulla base di questa diagnosi, si propone una serie di interventi finalizzati a orientare i processi formativi nella direzione delle qualifiche domandate, soprattutto mediante la c.d. alternanza scuola-lavoro.
Assumiamo che la diagnosi sia corretta, come attestato dall’ultimo Rapporto Mckinsey, che è la base teorica della “riforma”. E’ bene chiarire che si tratta di una diagnosi che deriva da una ricerca del gennaio 2014 realizzata da una delle più importanti imprese multinazionali che operano nel settore della consulenza manageriale. Curiosamente, il Governo ha scelto questa fonte e non quella ufficiale UnionCamere-Ministero del Lavoro. Da quest’ultima, in radicale contrapposizione con la prima, risulta che il tasso di disoccupazione giovanile imputato alla “mancanza di adeguata preparazione e formazione” è pari al solo 2% della disoccupazione giovanile complessiva[1].
La propaganda governativa prova a far passare il messaggio che la “riforma” è un provvedimento innovativo e tace sugli orientamenti della commissione europea in materia, essendo ben chiaro che il “ce lo chiede l’Europa” è un boomerang elettorale. Occorre, per contro, chiarire che:
- La “riforma” non introduce radicali elementi di novità. L’alternanza scuola-lavoro, parte integrante della Buona scuola, ora ridenominata “formazione congiunta”, non è affatto un’idea nuova, essendo stata alla base delle proposte per ridurre la disoccupazione giovanile dell’ultimo Governo Berlusconi. In tal senso, il Governo Renzi si muove in piena continuità con i suoi predecessori. L’alternanza scuola-lavoro è sostanzialmente la riproposizione dei programmi di apprendistato, già contenuti nel decreto 167/2011.
- La “riforma”, di fatto, è sollecitata dalla commissione europea. Nel documento “Ripensare l’istruzione” del 2012, la commissione esorta il Governo italiano a riformare il sistema dell’istruzione avendo come obiettivo accrescere l’occupabilità dei giovani italiani e come strumento l’attivazione di percorsi formativi “basati sull’esperienza lavorativa”.
L’obiettivo fondamentale della Buona scuola è adeguare le competenze dei giovani alla domanda di lavoro espressa dalle nostre imprese, soprattutto attraverso l’alternanza scuola-lavoro[2]. Al di là delle valutazioni di ordine pedagogico, il punto in discussione è se questa strategia abbia probabilità di successo, ovvero se possa raggiungere l’obiettivo di ridurre la disoccupazione giovanile, e, ancor più, a quale modello di sviluppo dell’economia italiana essa sia funzionale.
L’ultima rilevazione disponibile sugli esiti dell’alternanza scuola-lavoro è il XIV Rapporto ISFOL, nel quale si rileva che la numerosità dei contratti di lavoro in apprendistato è in continua riduzione: dai 492.490 nel 2011, ai 469.855 nel 2012, con una flessione del 4,6%. Significativo anche il fatto che la numerosità di contratti di apprendistato che si è maggiormente ridotta (nell’ordine del 40%) è quella relativa a giovani di età inferiore ai 18 anni.
Questi dati fotografano il palese fallimento delle politiche finalizzate a ridurre il presunto mancato incontro fra domanda e offerta di competenze per accrescere l’occupazione giovanile. Un palese fallimento che deriva da una diagnosi completamente errata delle cause del problema, ovvero dal fatto che l’elevata (e crescente) disoccupazione giovanile in Italia dipende in percentuale irrisoria dalla non corrispondenza fra competenze offerte e competenze richieste.
L’aumento della disoccupazione giovanile in Italia è innanzitutto imputabile alla caduta della domanda interna. In più, come registrato da Banca d’Italia, fin da 2010, la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti, con la conseguenza che la crescita della disoccupazione riguarda principalmente la componente giovanile della forza-lavoro. Il fenomeno viene imputato da molti commentatori a effetti di labour hoarding, ovvero alla convenienza – da parte delle imprese – a non licenziare lavoratori altamente specializzati in fasi recessive, dal momento che, se dovessero farlo, nelle successive fasi espansive si troverebbero costrette ad assumere individui da formare, con i conseguenti costi (monetari e di tempo) connessi alla specializzazione dei nuovi assunti.
A ciò si associa il fatto che la (relativa) tenuta dell’occupazione di lavoratori in età adulta è anche dipendente da fenomeni di disoccupazione nascosta, ovvero dal fatto che – in imprese di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare – il livello di occupazione viene mantenuto stabile per il semplice fatto che i lavoratori dipendenti appartengono alla struttura familiare. In altri termini, il costo del licenziamento, in questi casi, è sia economico[3] sia psicologico[4], ed è indipendente dalla specializzazione degli occupati.
Il secondo punto in discussione riguarda la connessione fra questa “riforma” e il modello di sviluppo dell’economia italiana. Si può partire dalla constatazione che il tessuto produttivo italiano è composto prevalentemente da imprese di piccole dimensioni con bassa propensione ad innovare e che la specializzazione produttiva dell’economia italiana si basa prevalentemente su quelli che l’ISTAT definisce “settori tradizionali” (il c.d. Made in Italy, l’agroalimentare, il turismo).
Dunque, fatte salve le dovute eccezioni (collocate soprattutto nel comparto dei macchinari), le nostre imprese non esprimono una domanda di lavoro altamente qualificato. La “riforma” non fa che assecondare questo modello di sviluppo, provando a dequalificare la forza-lavoro in linea con la domanda espressa dalle nostre imprese. Lo strumento utilizzato consiste nel dare maggior peso alle competenze tecniche (il saper fare, ciò che il Ministero definisce “insegnamento pratico”) e incentivando percorsi di studio che preparino alla gestione delle attività turistiche e all’autoimprenditorialità[5]. Ne costituisce prova il fatto che la cultura umanistica viene radicalmente ridimensionata, così come viene messa in discussione l’“utilità” del Liceo Classico.
Sul piano economico, si tratta di una impostazione criticabile sotto un duplice aspetto. In primo luogo, questa impostazione, che asseconda una specializzazione produttiva a bassa intensità tecnologica, rischia di accentuare il problema del bassissimo tasso di crescita della produttività del lavoro in Italia[6]. In secondo luogo, essa fa propria una visione estremamente miope delle funzioni della scolarizzazione. Le competenze tecniche acquisite oggi, infatti, possono risultare rapidamente obsolete in un contesto nel quale ciò che conta è il saper apprendere.
NOTE
[2] Nel documento preparatorio della “riforma” si legge: “Occorre conoscere le forme della nuova geografia del lavoro, e le competenze che il mondo richiede. Per fare questo, vogliamo costruire uno strumento di mappatura della domanda di competenze del nostro sistema Paese … Concretamente, sarà uno strumento utile le scuole per predisporre piani di orientamento coerenti con la domanda di lavoro prevista dal territorio, ma anche uno strumento per la revisione dei curricoli scolastici stessi”.
[3] Per l’ovvia ragione che, in questo caso, il licenziamento comporta la riduzione di reddito della famiglia.
[4] Per l’altrettanto ovvia ragione che è psicologicamente costoso licenziare un familiare.
[5] Nel documento preparatorio si legge: “abbiamo bisogno di formare giovani capaci di ripartire dal Made In Italy inteso nella sua accezione più ampia e di valorizzare le nostre meraviglie artistiche all’interno dell’offerta turistica, anche scegliendo strade imprenditoriali”.
[6] Per un approfondimento, si rinvia, fra gli altri, a G.Forges Davanzati, Alle origini del declino economico italiano, “Micromega”, 1 aprile 2015; P.Pini, L’Italia e la trappola della produttività, “Sbilanciamoci”, 26.11.2013; S.Perri, Bassa domanda e declino italiano, “Economiaepolitica”, 4.4.2013.