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«Lascio la guida, ma non la Cgil. Oggi la nostra trincea è quella più importante»

Conversando con Guglielmo Epifani

02/11/2010
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l'Unità

di Oreste Pivetta

Dopo otto anni Guglielmo Epifani lascia. Non sarà più segretario della Cgil. Domani sarà il giorno del direttivo, che valuterà l’esito delle consultazioni e poi sarà il voto. Che eleggerà SusannaCamusso, una donna per la prima volta alla guida del sindacato.

Il giorno dopo, a Roma, al Teatro Quirino, il doppio saluto: quello del vecchio segretario e quello del nuovo. Un rito: fu così nel settembre 2002, tra Cofferati ed Epifani, al Palasport. Otto anni tempestosi, tra due governi Berlusconi e, in mezzo, il secondo governo Prodi.

«Sempre in campo – dice a questo punto Guglielmo Epifani – senza mai abbassare la guardia». Molti lo vedono già in politica. Ma non è così, spiegherà. Continuerà a lavorare per la Cgil, dove arrivò trentacinque anni fa (venti dei quali trascorsi in segreteria). Cominciò in una paese molto diverso, di grandi fabbriche, di radicata cultura operaia, «quando s’avvertivano – ricorda Epifani – passione politica e senso profondo di solidarietà ». Tutto il contrario del presente, lacerato, diviso, in una società dove primeggia l’individualismo, condizionata dalla precarietà, impoverita e incerta, in un paese dove il sindacato è ancora uno degli anelli forti della sopravvivenza democratica... malgrado anche per il sindacato sia tempo di lacerazioni.

Otto anni, Epifani, che si chiudono mostrando quanto non avremmo mai voluto vedere: rottura tra Cisl, Uil e Cgil. Di chi la colpa?

«È un problema aperto e l’obiettivo resterà quello di riannodare il filo con Cisl e Uil, un rapporto che si è logorato non per colpa nostra, perché non è una colpa difendere le nostre posizioni di merito, mentre abbiamo visto gli altri cambiare faccia spesso e troppo rapidamente. Sono stati anni complessi. E’ esplosa la globalizzazione, ci si è cullati nell’ideologia liberista che ha concesso piena libertà alle logiche di mercato, si è precipitati nella più grave crisi finanziaria dal dopoguerra, una crisi che continua a colpire l’economia reale. Ancora ieri il presidente del Fondo monetario internazionale ci ha ricordato che nel mondo si sono persi trenta milioni di posti di lavoro. Sottolineo: senza responsabilità del mondo del lavoro. Per quanto ci riguarda, otto anni che sono cominciati ritrovando il rapporto unitario. I problemi sono venuti con la caduta del governo Prodi. La divisione è figlia del fatto che Cisl e Uil hanno scommesso sulla forza di questo governo e ne hanno pagato la determinazione a spaccare il sindacato. Siamo arrivati così all’accordo separato sul modello contrattuale e alla manifestazione di Cisl e Uil sul fisco, mandando a vuoto il lungo lavoro che proprio sul fisco i tre sindacati insieme avevano realizzato».

Confermando molti nell’idea che Cisl e Uil siano solo governativi…

«Costruendo appunto una rappresentazione grottesca del sindacato, una rappresentazione che non fa onore alla loro stessa storia. Malgrado questo si sono firmati unitariamente 50 contratti e unitariamente si continua a lavorare in molte zone, là dove più si avvertono il declino del paese e l’impotenza del governo distratto da ben altre storie… Credo che il primo passaggio per tornare all’unità stia nello stabilire le regole della nostra democrazia».

Lei sostiene che la Cgil non ha colpe… Sull’altro fronte si sostiene che la colpa sia tutta della Cgil.

«Ho parlato di fisco. C’era una piattaforma, loro hanno scelto di scendere in piazza da soli. Ho parlato di democrazia e rappresentanza e una piattaforma comune era stata disegnata. Se poi ci si riferisce alla questione delle deroghe contrattuali per i metalmeccanici e al caso Pomigliano, non credo proprio che la Cgil abbia torto. Perché una deroga contrattuale apre un varco pericoloso per tutti i contratti e perché a Pomigliano abbiamo sbagliato andando a discutere come lavorare, in assenza di un piano, che dicesse che cosa produrre. Non si fa così. Prima si discute di investimenti e di prodotti, poi di organizzazione del lavoro».

Marchionne ha rincarato la dose.

«Gli ultimi dati del mercato dell’auto dicono di una caduta delle vendite e dicono che la Fiat soffre più degli altri. Sono numeri che ci confermano nell’idea che la Fiat paga la mancanza di modelli: sul piano della ricerca e dell’innovazione non è all’altezza degli altri. Marchionne ci ha distratti: invece di parlare di qualità del prodotto, ci ha fatto intendere che tutto dipende dall’organizzazione del lavoro».

Si è spiegata l’esternazione di Marchionne come una chiamata in causa del governo.

«Certo, se ci fosse stato un governo degno di questo nome non saremmo a questo punto. Di fronte alle scelte del più grande gruppo manifatturiero nazionale, un governo serio avrebbe imposto un tavolo di trattativa e costruito una proposta per difendere investimenti e occupazione…Che Marchionne insegua il governo è giusto, ma in questo inseguimento non si rafforza spaccando con la Fiom».

Il risultato più bello di questi otto anni ?

 «La battaglia per la difesa della Costituzione e la vittoria nel referendum».

Il compito più arduo che toccherà al suo successore?

«La questione del lavoro precario. Ma è anche un cruccio mio per il passato: non aver fatto abbastanza contro la precarietà. Ma ci siamo trovati di fronte governi, con l’eccezio ne del governo Prodi, che hanno sempre perseguito politiche tese ad accentuare la precarietà ».

Un errore?

«Diciamo che ci lasciamo alle spalle decisioni condivise sulle quali abbiamo sempre tanto riflettuto insieme. Un errore? Forse quando si era al tavolo con Montezemolo e mi sono alzato. Ma avevo capito che si voleva andare a un confronto sul modello contrattuale quando non esisteva ancora una piattaforma sindacale. Una scelta la mia giusta nella sostanza, anche se troppo dura nella forma».

E la politica? Niente, per ora. Epifani resterà al sindacato a capo dell’Istituto Bruno Trentin, che coordinerà l’attività di studio, di ricerca e di formazione di altri istituti come l’Ires e la Fondazione Di Vittorio: «Con il proposito di contribuire alla formazione di un programma, che abbia al centro i temi del lavoro, per un governo all’altezza dei problemi che ha di fronte il paese». Ma su candidature e altro Epifani non risponde. Orgogliosamente ci ripete: «Oggi la nostra trincea è quella più importante».


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