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Liberare l’università

Stati Uniti Un tempo erano sinonimo di eccellenza. Oggi le università statunitensi sono macchine da soldi che sfornano laureati pieni di debiti. Il capitalismo accademico ha vinto, scrive Thomas Frank

28/09/2013
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da Internazionale del 28.9

 Thomas Frank, The Baler,

Q uesto articolo parte da  un’utopia,  l’utopia  dell’università statunitense.  Tutti  ci  dicono  che  è  la  migliore  del  mondo. Anzi, a giudicare dagli elogi che riceve,  forse è la migliore istituzione statunitense  in assoluto. Con i suoi campus idilliaci e le  sue attività di ricerca avanzata, l’università  arricchisce spiritualmente più della chiesa,  educa più della famiglia, produce più di  qualsiasi industria. L’università coltiva sogni. Come altre utopie, come il mondo di  Walt Disney, come i paesaggi paradisiaci  che appaiono nelle pubblicità dei profumi,  come le eroiche gare delle Olimpiadi, l’università è il luogo della realizzazione dei  desideri e delle infinite possibilità. È la crociera di lusso che in quattro anni ci trasporterà dolcemente oltre il golfo della nostra  classe sociale. È la porta per accedere alla  terra del benessere. Non è l’università a dirci queste cose, le  dicono tutti. Lo dice il presidente degli Stati Uniti. Lo dicono i più stimati economisti  e commentatori politici. Gli eroi del mondo degli affari e dello sport. I nostri insegnanti preferiti e i consulenti per l’orientamento e forse anche la nostra mamma tigre. In fondo, loro ci sono andati. Lo sanno.  Alla fine della scuola superiore gli studenti  americani si preparano alla vita universitaria come bambini che scrivono la letterina  a Babbo Natale. Promettiamo di comportarci bene. Di aprire il nostro cuore all’amata istituzione. Di prendere buoni voti. Di  fare del nostro meglio nei test di selezione.  Scriviamo in tutta sincerità quale sarebbe  la nostra prima, seconda e terza scelta. Diciamo quello che vorremmo fare da grandi.  Condividiamo tutti i nostri desideri. Guardiamo le fotografie di studenti che sorridono, visitiamo il campus e scopriamo, immancabilmente, che è bellissimo. E quando arriva la tanto attesa lettera di accettazione, quello è il nostro più grande momento di affermazione personale. Le nostre fatiche sono state premiate. Siamo  stati scelti.  Poi passa qualche anno, e un giorno  scopriamo che non esiste nessun Babbo  Natale. Siamo stati ingannati. Abbiamo accumulato centomila dollari di debiti, e non  sappiamo  come  uscirne.  Non  abbiamo  nessuna prospettiva. E se i nostri maledetti sogni sono stati tanto folli da spingerci a  prendere un dottorato, allora sì che impariamo una lezione. Un luogo comune Tutto è cominciato quando la gente ha iniziato a pensare che una laurea garantisse  l’accesso alla classe media: avremmo creato una repubblica modello di cittadini-studenti, che grazie ai loro successi accademici avrebbero raggiunto i livelli più alti del  capitalismo aziendale. I feticci dell’arrampicatore sociale moderno erano un titolo di  studio e un ufficio con enormi finestre. I  migliori avrebbero avuto il benessere garantito. E molti continuano ancora a crederci, nonostante tutto quello che è successo nelle università e nelle aziende. Ogni  tanto ci preoccupiamo dei professori troppo di sinistra, ma l’università è ancora il  posto dove andiamo per “scrivere il nostro  destino”, come ha detto Barack Obama nel  2010 a proposito dell’istruzione in generale. Andate all’università, altrimenti il vostro destino sarà scritto da qualcun altro.  La laurea è un “prerequisito per tutti i lavori del ventunesimo secolo”, dice il sito della  Casa Bianca. Lo stesso Obama fa coincidere l’istruzione con la mobilità sociale: più  istruzione equivale a più successo, e alla grandezza nazionale. “Le opportunità che  vi saranno oferte dipenderanno da quanto  studierete”, ha detto qualche anno fa. “In  altre parole, più si studia, più si andrà avanti nella vita. E in un’epoca in cui gli altri paesi competono con gli Stati Uniti come non  hanno mai fatto prima, in cui gli studenti di  tutto il mondo lavorano più sodo che mai, e  ottengono risultati sempre migliori, il successo scolastico contribuirà anche a determinare quello degli Stati Uniti nel ventunesimo secolo”. Ormai è diventato un luogo comune.  Tutti lo dicono. È ovvio. L’editorialista del  New York Times Thomas Friedman, che  da qualche anno si è autonominato lord  protettore della cultura, lo ripete continuamente: se volete guadagnarvi da vivere decentemente, dovete acquisire il livello di  istruzione e di competenze che richiede la  classe imprenditoriale. Il ritornello dell’importanza dell’istruzione superiore è forse il  cliché più diffuso del paese. E così il sogno si perpetua. L’istruzione  è l’unica cosa che potrà salvarci quando  dovremo affrontare la concorrenza diretta  di Cina, Vietnam e Filippine, dicono i giornalisti. Le disparità di reddito sono legate  ai livelli di istruzione, fanno eco gli economisti: per ristabilire l’equilibrio bisogna  studiare di più. Anzi, l’istruzione è praticamente l’unico modo per giustificare il nostro stipendio, l’unico elemento quantificabile che testimonia il nostro valore e le  nostre “competenze”. La confraternita dei laureati Quantificabile, sì, ma in modo piuttosto  vago. Nessuno sa esattamente che tipo di  istruzione potrebbe salvarci. Ancora una  volta, è un sogno, una formula segreta, una  scatola nera in cui versiamo denaro e da cui  escono prestigio sociale, ricchezza e realizzazione dei desideri. Come possa l’istruzione universitaria compiere questi miracoli – con la matematica? con i classici? – è  oggetto di grandi discussioni. L’unica cosa  certa è che le persone che sono andate  all’università sono ricche. Ne consegue naturalmente che mandando più persone al  college, il paese sarà più ricco. In realtà, a giudicare dall’idea che si è  fatta la gente comune, questa istituzione  da sogno potrebbe non essere altro che una  specie di confraternita che si autoperpetua. Forse l’università riesce nella sua impresa magica perché i laureati assumono  solo laureati, e dopo aver tessuto per decenni questa “ragnatela di rapporti personali” – che come tutti sanno è più importante dei libri letti – i laureati sono riusciti a  colonizzare l’intera economia. Nessuno sa  per certo come funziona, ma tutti vedono  che funziona, e questo basta. Se prendi una  laurea in una “buona università” i tuoi sogni si realizzeranno. Se invece prendi un  diploma da estetista o decidi di fare l’autotrasportatore, sei un perdente. Non ci fermiamo mai a pensare che forse le cose sono andate esattamente al contrario: all’apice della loro popolarità le  grandi università sono cresciute per soddisfare le richieste delle imprese, non per  costruire la classe media. Quello che tutti  pensano, invece, è che l’industria dell’istruzione superiore garantisce una vita agiata,  e che è l’unica autorizzata a farlo. Certo,  possiamo scegliere tra tante università,  pubbliche e private, ma tutte insieme controllano l’unica credenziale che riteniamo  abbia un qualche valore. Lo pubblicizzano  in tutti i modi: con i loro motti araldici, le  torri gotiche, perfino i loro nomi, che evocano  l’idea  del  denaro,  dei  privilegi  e  dell’aristocrazia: Duke, Princeton, Vanderbilt. Se vuoi farcela, devi andare lì, sono  loro che controllano le porte del successo. Quello che vendono, in altre parole, è  un bene così prezioso che è quasi impossibile misurarne il valore. Chiunque abbia  un po’ di buonsenso dovrebbe essere disposto a pagare qualsiasi prezzo per averlo.  Lo conferma il fatto che questa stessa industria, che per legge non dovrebbe avere  nessuno scopo di lucro, oggi si pone obiettivi non molto diversi da quelli delle aziende basate sul profitto quotate alla borsa di  Wall street. L’arrivo del “capitalismo accademico”  è stato annunciato per anni. E ora è qui.  College e università rivendicano avidamente brevetti farmaceutici e quote di proprietà di startup tecnologiche, si vantano  di essere “imprese”, hanno razionalizzato  e dato in appalto molte attività per fare più  soldi, trattano i dipendenti quasi con la  stessa ferocia dei padroni delle ferrovie  dell’ottocento, e le più ricche hanno trasformato le loro sovvenzioni in fondi d’investimento ad alto rischio. Ora pensate al “cliente” di 17 anni che  deve affrontare questi predatori. Arriva al  tavolo delle contrattazioni armato più o  meno della stessa scaltrezza con cui, qualche anno prima, si sedeva in braccio a Babbo Natale in un centro commerciale. Di sicuro sa tutto sull’assoluta necessità di realizzare i suoi sogni, e sul vantaggio sociale  che comporterà aver frequentato quell’istituzione. Se non va al college come tutti i  suoi amici, dovrà andare a lavorare. Conosce abbastanza il mondo da sapere che genere di lavoro può trovare con in  tasca solo il diploma di scuola superiore,  ma dell’università sa ben poco. È l’opposto  di un consumatore informato. Eppure ci va  lo stesso, armato solo della capacità di pagare qualsiasi prezzo gli venga chiesto dalla scuola dei suoi sogni. L’unica cosa che  deve fare è firmare la richiesta per un prestito, accettando di essere vincolato per  sempre a uno strumento finanziario oscuro  e che, grazie all’ottimismo dell’adolescenza, non ha ancora imparato a temere. Nessun controllo La maledizione che l’università ha gettato  sui giovani americani è il risultato diretto e  ineluttabile di questa sinistra equazione.  Certo, in alcuni casi le variabili sono diverse e le conseguenze meno terribili. Ma, in  generale, una volta entrati in gioco i fattori  che ho appena indicato, è una semplice  questione matematica. Concedi a un’industria il controllo sull’accesso a tutte le cose  belle della vita, spingila a diventare un’istituzione mercenaria senza scrupoli orientata esclusivamente al mercato, convinci i  maestri del pensiero a dichiarare che è la  risposta a tutti i problemi, metti a tacere i  dubbi  della  gente,  e  poi  consegna  a  quell’industria i tuoi igli ignari, armati solo di un assegno in bianco sul loro futuro.  È inevitabile. Mettendo insieme questi  quattro fattori, naturalmente i costi saliranno alle stelle, fino ai 60mila dollari  all’anno che oggi chiedono alcuni college  privati. E naturalmente i giovani s’indebiteranno per tutta la vita; naturalmente  l’università userà quello che sa di loro – i  college che possono scegliere, le visite ai  campus, le speranze per il futuro – per spremere fino all’ultimo dollari da quei ragazzi.  Sono agnelli che trottano allegramente  verso il macello. È la conseguenza inevitabile del nostro amore per l’università e per  il mercato. È la stessa lezione che dovremmo aver imparato da tante altre disastrose  privatizzazioni. Con la nostra passione per  l’impresa e la meritocrazia, ci siamo dimenticati che forse il mercato non è la soluzione per tutto. Qualche mese fa mi ha scritto una casa  editrice specializzata in testi universitari. Voleva ripubblicare un mio articolo che  aveva trovato su internet, dove può essere  scaricato gratuitamente. L’antologia in cui  voleva inserirlo sarebbe stata venduta “a  un prezzo molto basso”, quindi si chiedeva  agli autori di ridurre al minimo le loro richieste economiche. Il prezzo molto basso  che gli studenti avrebbero pagato era di  “circa” 75,95 dollari. Sono rimasto sbigottito, ma dopo aver  fatto una rapida ricerca mi sono reso conto  che, in effetti, 76 dollari era un prezzo molto basso per gli standard del settore. Oggi è  più probabile che un libro di testo costi intorno ai 250 dollari. Secondo un economista, negli ultimi 35 anni il prezzo dei testi  universitari è aumentato dell’812 per cento, superando di gran lunga non solo il tasso d’inflazione ma anche l’aumento dei  costi di beni e servizi come la casa e la sanità, che ormai consideriamo fuori controllo. La spiegazione è semplice. Gli editori di  libri di testo usano tutti i trucchi degli  esperti di marketing per rendere i loro prodotti obsoleti anno dopo anno, in modo  che diventi impossibile comprarli di seconda mano. Inoltre, l’editoria didattica è nelle mani di pochissimi editori – praticamente un oligopolio – che quindi possono aumentare i prezzi dei libri quanto vogliono.  Tanto i professori, che li scelgono e che potrebbero fare qualcosa per impedirlo, non  li pagano. Ma non basta. La verità è che rapine del  genere sono comuni in tutto il mondo accademico: ogni aspetto dell’istruzione superiore è stato colonizzato da  monopoli,  cartelli  e  predatori  che nessuno controlla. L’ingenuo  studente americano è diventato  una mucca da mungere, e tutti  hanno inventato un sistema per  prendersi la loro parte. Pensate all’industria dei test per l’ingresso all’università e alla sua ombra, quella dei corsi preparatori. Entrambe guadagnano  da  anni  alimentando  un’inutile  competizione tra i giovani preoccupati che  i loro sogni siano cancellati da quelli di  qualcun altro. Le aziende che preparano i  test, ognuna delle quali detiene il monopolio su un settore speciico, chiedono agli  studenti quote di registrazione altissime,  pagano stipendi da favola ai loro dirigenti e  tramano per allargare l’impero dei test  standardizzati, per esempio convincendo  sempre più studenti delle superiori a sostenere un esame preparatorio all’università.  Hanno invaso anche le scuole elementari,  dove il programma No child left behind e la tendenza a offrire un “programma di base  comune” hanno aperto la strada all’uso dei  test. Nel frattempo, gli addetti alla preparazione cercano di stare al passo: chiedono  agli studenti cifre ancora più alte e cercano  di convincere le nuove generazioni – gli  alunni delle elementari – che anche loro  hanno bisogno di corsi di preparazione.  Ogni tanto, sui giornali qualcuno scrive  che questo tipo di preparazione influisce  molto poco sui punteggi inali, ma anche  quegli  articoli  influiscono  molto  poco.  Quale genitore pensa a risparmiare quando è in gioco il futuro di suo figlio? Così il  boom dei corsi di preparazione dura da decenni. L’azienda più famosa del settore, la  Kaplan, ha aperto succursali in tutto il mondo. Anche se tecnicamente appartiene alla Washington Post company, da anni  i suoi ricavi superano di gran lunga quelli  del giornale. Per non parlare dell’industria delle risposte ai test. Casi di frode di massa sono  emersi a Harvard, alla prestigiosa Stuyvesant High, alle rigorosissime Atlanta public  schools, e in Corea del Sud, dove qualche  mese fa hanno dovuto annullare i risultati  dei test d’ingresso alle università di tutto il  paese. Pensate poi all’industria delle  “iscrizioni”, che aiuta i college e  le università ad avere il numero  di studenti che desiderano. Dato  che in molti casi questo signiica  studenti che possono pagare – l’esatto contrario dell’apertura che molte università  dicono di avere a cuore – il compito della  caccia alle iscrizioni è lasciato a società di  consulenza che usano gli strumenti del  marketing per scoprire la “sensibilità ai costi”  degli  studenti.  Ma  se  concedi  uno  sconto a uno studente che ha ottenuto un  certo punteggio, questo basterà a convincerlo a pagare il resto della retta e a scegliere la tua università? Cosa puoi fare per convincerlo? I consulenti sanno quale sconto  possono ofrire per aumentare gli introiti  dell’ateneo e tenere alto il punteggio necessario per accedervi. Pensate agli accordi segreti così comuni tra le amministrazioni delle università e  gli uomini d’afari che siedono nei loro consigli di amministrazione. Pensate alle compravendite immobiliari degli atenei, che  sono spesso poco trasparenti e quasi sempre esentasse. Pensate all’esercito di lobbisti che lavorano per loro a Washington, per  ottenere fondi ed evitare controlli. Pensate  ai loro grandi investimenti nello sport. O ai  loro loschi accordi con i produttori di tabacco, le case farmaceutiche e l’industria  tecnologica. Infine, pensate alle tante università che  hanno aumentato le tasse portandole a livelli stratosferici senza motivo, approfittando della strana credenza popolare secondo cui il prezzo è indice di qualità. Nonostante tutti gli articoli e le denunce, non  è possibile togliere dalla testa della gente  questa idea del rapporto tra prezzo e qualità, quindi l’università diventa inevitabilmente un articolo di lusso, come un capo di  Armani da portare per tutta la vita che costa una fortuna ma non ha nessun valore  intrinseco. “È una specie di trofeo, un simbolo”,  ha  dichiarato  al  Washington  Monthly nel 2010 l’ex rettore della George  Washington university parlando della sua  strategia per far entrare l’ateneo nell’olimpo universitario aumentando enormemente le tasse. “È il simbolo di quello che credono di essere”. È anche un’idea meravigliosamente circolare, no? Sappiamo che  con una laurea si diventa ricchi perché i ricchi sono laureati. E sappiamo che dobbiamo spendere molti soldi per pagare il college perché siamo convinti che gli status  symbol devono essere estremamente costosi. Se ci pensate bene, viene il sospetto  che forse l’istruzione si riduce agli adesivi  dell’università che mettiamo sulla macchina. Dove finiscono i soldi Lo  scandalo  del  giorno  nel  settore  dell’istruzione riguarda la Cooper union,  la prestigiosa scuola d’arte e architettura di  Manhattan che, da quando è stata fondata  nel 1859 e fino all’anno scorso, ha offerto  un’ottima formazione gratuita a tutti quelli che riuscivano a essere ammessi. Lo faceva gestendo in modo oculato i limitati  fondi generati dal suo lascito iniziale. Ora  non se lo può più permettere e ha annunciato che il prossimo autunno comincerà a  chiedere agli studenti ventimila dollari  all’anno. Il motivo è che la Cooper union,  come tutti gli altri istituti di istruzione superiore statunitensi, qualche anno fa ha  deciso che doveva pensare in grande, rinnovarsi e costruirsi un marchio. Il primo  passo è stato far costruire un costosissimo  trofeo architettonico di fronte alla sua sede originaria. Purtroppo, la Cooper non aveva  i soldi per costruire il suo elegante grattacielo, così, come fanno tante società, ha  dovuto chiedere in prestito una somma  enorme. Laf ine della “gratuità del servizio” è stato un danno collaterale. Meglio  diventare famosi per un’“esaltante” opera  di architettura, che per sciocchezze di altri  tempi come offrire un’opportunità ai meno  abbienti. La storia della Cooper union è tipica  dell’era del capitalismo universitario, e  non è difficile trovare altri esempi delle  spese inutili e stravaganti che caratterizzano le istituzioni accademiche statunitensi  di oggi, e le rendono “le migliori del mondo”: le squadre sportive che riempiono di  orgoglio gli ex studenti, le fantastiche palestre e i raffinati ristoranti per attirare i ragazzi della buona società, i professori famosi a cui bisogna offrire una cattedra,  anche se non conoscono la materia che devono insegnare. Ma a intascare la maggior parte del bottino sono i padroni stessi dell’accademia. E  non mi riferisco solo al numero crescente  di rettori che portano a casa stipendi annuali superiori a un milione di dollari. Naturalmente questo è un vergognoso spreco  di denaro preso in prestito da Wall street in  un’epoca in cui dovremmo fare esattamente il contrario. Ma quello che ha fatto veramente aumentare l’indebitamento degli  studenti è l’assurda proliferazione del personale amministrativo. Il politologo Benjamin Ginsberg racconta questa triste storia nel suo libro del  2011 The fall of the faculty. Un tempo le università statunitensi erano governate dai  professori, che sottraevano tempo alla ricerca per occuparsi degli affari dell’istituzione. Oggi invece questo aspetto economico è gestito da una categoria di professionisti che non ha niente a che vedere con  l’aspetto pedagogico dell’istituzione. Sono  solo amministratori. Sono sempre di più, si  attribuiscono stipendi generosi e il loro lavoro, che nessuno controlla, non è neanche  troppo faticoso. La maggior parte di loro  non insegna, non litiga con i colleghi e nessuno pensa mai di sostituirli con un supplente. Quando le tasse universitarie aumentano, sono gli amministratori che si  arricchiscono. Le loro fortune sono l’immagine speculare dell’indebitamento degli studenti. Secondo Ginsberg, oggi “il numero degli amministratori supera di gran lunga  quello dei professori a tempo pieno”, anche se sono i docenti a fare il lavoro educativo che consideriamo tanto importante.  Le cifre sono sorprendenti. Mentre dal  1975 a oggi il numero dei professori a tempo pieno è aumentato più o meno parallelamente all’aumento delle iscrizioni, cioè  di circa il 50 per cento, gli unici amministrativi si sono allargati enormemente. Il  personale è aumentato dell’85 per cento,  mentre il numero di altri “professionisti”  che lavorano per le università è cresciuto  del 240 per cento. E la quota di bilancio che  viene usata per pagarli è aumentata di conseguenza. Il manager al comando Naturalmente sotto gli alberi dei campus è  scoppiato un nuovo conflitto di classe.  Sembra che gli amministratori abbiano capito che le loro fortune sono inversamente  proporzionali a quelle dei docenti. Il benessere di un gruppo è garantito a spese  dell’altro e viceversa. E così, secondo Ginsberg, gli amministratori sono costantemente impegnati ad aumentare il proprio  numero, a sostituire i titolari di cattedra  con incaricati, a sottoporre i professori a piccole umiliazioni, a interferire nelle assunzioni, a ridurre la competenza dei docenti a qualcosa che può essere misurato  da un test standardizzato. Ma la lampadina si accende quando si  legge la descrizione delle loro attività quotidiane fatta da Ginsberg. L’unica pedagogia alla base del comportamento di questa  specie di animali universitari è la teoria del  management. Parlano continuamente di  “gestione dei processi” e di “eccellenza”.  Creano “comitati culturali”. Partecipano a  ritiri in cui si fanno giochi finalizzati al   team-building. Interi uici sono dedicati  alla stesura di “piani strategici” per le università. Il fatto che chi prende le decisioni deinitive sul destino delle nostre istituzioni  sia guidato da una pseudocultura è paradossale, ma anche rivelatore. Lo scopo della teoria del management, dopotutto, è  confermare la legittimità di un ordine e di  una classe sociali che, in pratica, sono poco  più che droni telecomandati. Il grottesco  sbilanciamento verso l’alto delle aziende  statunitensi è noto: abbiamo più supervisori per lavoratore di qualsiasi altro paese  industrializzato, e naturalmente abbiamo  prodotto un’ampia letteratura di false teorie sociali per convincere i supervisori del  loro diritto a esistere, una letteratura che  consiglia anche a tutti gli altri di accettare  la  propria  posizione  subordinata  nella  Grande catena del libero mercato. Docenti proletarizzati La deprofessionalizzazione del corpo docente è un’altra tragedia che va avanti da  tempo e diventa ogni anno più triste, dato  che insegnare all’università è sempre più  un’occupazione a tempo determinato, senza indennità accessorie e senza sicurezza  di continuità. Questi professori proletari,  che hanno impiegato anni a conseguire titoli di studio avanzati ma che spesso guadagnano meno del salario minimo, costituiscono ormai i tre quarti del corpo docente delle prestigiose e follemente costose università statunitensi. Il loro numero  aumenta perché gli atenei continuano a  produrre molti più ricercatori di quante  siano le cattedre disponibili, e ogni volta  che bisogna ridurre le spese, cioè quasi  sempre, sono proprio le cattedre a essere  eliminate. Cosa posso aggiungere a questa orribile  storia? Che da vent’anni continua a peggiorare? Ma c’è qualcosa di nuovo da dire sulle  umiliazioni che i professori proletari subiscono dai loro cosiddetti colleghi? E qualcuno rimarrebbe sconvolto se descrivessi la vita squallida e disperata che conducono  mentre inseguono il loro sogno universitario? Servirebbe a qualcosa ricordare ai lettori che i professori di trent’anni fa hanno  contribuito a mettere in moto le forze della  distruzione perché per loro creare più ricercatori significava lavorare di meno? No. Quello che conta è che ormai è fatta. Abbiamo visto tutti come sono andate  le cose e quali discipline hanno avuto la  peggio. Si dà il caso che siano proprio quelle che negli anni ottanta erano insegnate  dalle persone più famose, più rispettate,  più teoricamente avanzate, più aggressive  e che incutevano maggior soggezione. I  loro eredi, i loro studenti, sono stati trasformati in lacchè a salario minimo. Un  tempo erano i protagonisti dell’università  e ora guardate cosa sono diventati. La loro caduta ci dimostra con quanta  facilità si possono far crollare i sistemi di  questo tipo. Nella meritocrazia non c’è  nessuna solidarietà, neanche di facciata,  come ha dimostrato l’antropologa Sarah  Kendzior in una serie di articoli sulla situazione dei professori a contratto. Nel mondo accademico quasi tutti pensano di essere stati i ragazzi più intelligenti della loro  classe, quelli con i voti più alti. Sono convinti, per definizione, di essere dove sono  perché se lo meritano. Sono i migliori.  Quindi è facile per i professori di  ruolo dire che a lamentarsi della  deprofessionalizzazione  sono  solo quelli meno preparati che  non riescono a farcela. Anche  molti professori a contratto hanno difficoltà a prendersela con il sistema  quando presentano inutilmente domanda  per un posto di ruolo o corrono da una parte all’altra della città per fare un secondo o  un terzo lavoro. Dopotutto, forse sono loro  a non essere all’altezza. E così, sprofonderanno nella melma tutti insieme. Il sistema non può andare avanti così. È  palesemente una frode a tutti i livelli, e fa  troppe vittime. Uno di questi giorni arriverà a un punto critico, come è successo per  la Enron, la new economy e la bolla immobiliare, e tutte le belle parole dei nostri  maître à penser saranno ricordate per farli  apparire come gli imbecilli che sono. Non  sappiamo ancora che forma assumerà la giustizia cosmica: forse quella dei corsi online gratuiti, o di uno sciopero nazionale  dei docenti, o del fallimento per debiti di  un paio di università prestigiose, o forse la  destra finalmente si accorgerà che la logica  economica degli atenei contrasta con il liberismo sociale. È facile capire cosa bisognerebbe fare  per migliorare la situazione dell’istruzione  superiore, c’è un’ampia letteratura sull’argomento. Molti hanno capito da anni che è  uno scandalo. Tutti gli esempi e le argomentazioni che ho portato sono già stati  usati da qualcun altro. In fondo, molti di  quelli che hanno assistito al suo declino  sono persone che sanno scrivere.  Alla fine degli anni ottanta il paese era  già in rivolta per l’aumento delle tasse universitarie. Bill Readings ha pubblicato la  sua deprimente previsione, The university  in ruins, nel 1996. Nello stesso anno sul  Wall Street Journal era uscito uno sconvolgente articolo di prima pagina su come venivano gestite le iscrizioni. La proletarizzazione dei ricercatori è stata oggetto di varie  denunce dai tempi dello sciopero degli assistenti di Yale a metà degli anni novanta.  Io ho due libri sull’argomento, ma senza  dubbio ne esistono molti altri. L’analisi di  Chris Newield sul managerialismo delle  università è apparsa nel 2003, e University  Inc. di Jennifer Washburn nel 2005. Stanley  Aronowitz ha previsto il declino dei docenti universitari nel 1997, e Frank Donoghue  ci ha detto esattamente come sarebbe andata afinire in The last professor, pubblicato  nel 2008. Quello che dovrebbe succedere è la totale inversione di quanto ho descrittof inora. I college dovrebbero diventare gratuiti o molto economici.  Dovrebbero essere ampiamente  sovvenzionati dallo stato. E la  concorrenza tra le università statali dovrebbe far scendere i prezzi. Gli sprechi di denaro per pagare tutto  quel personale amministrativo, un rettore  prestigioso e una squadra di football semiprofessionale dovrebbero essere eliminati.  Le agenzie di certificazione dovrebbero  colpire con forza le università che usano  troppi professori a contratto e part-time. I  debiti degli studenti dovrebbero essere rifinanziati senza interessi o a un tasso di  interesse minimo e dovrebbero essere cancellati in caso di fallimento, come qualsiasi  altra forma di debito. Ma ripetere queste cose è un po’ come  continuare a dire che sarebbe un peccato  se tutti i giornali fossero costretti a chiudere. È ovvio. Chiunque sia in grado di ragionare lo capisce. Ma capirlo e continuare a  dirlo serve a poco. Nonostante l’apparente radicalismo  del mondo accademico, la sua meritocrazia in via di estinzione non riesce a trovare  la forza per invertire la tendenza del mercato. Anche se ai vertici ci sono persone  istruite – gli unici componenti della prima  amministrazione Obama a non avere un  titolo di studio superiore erano i ministri  dei trasporti e dell’istruzione – nessun politico ha mai proposto di prendere gli ovvi  provvedimenti indispensabili per risolvere  il problema. Interrompere il ciclo Quello che succederà veramente all’istruzione superiore, quando arriverà al punto  critico, sarà un’estensione di quello che è  successo finora, quello che il mondo del  denaro vuole che succeda. Ancora una volta, un disastro provocato dalle leggi di mercato sarà interpretato come una catastrofe  causata dal socialismo, e sarà imposta una  penetrazione ancora maggiore del mercato nelle università. Consigli di amministrazione e rettori raddoppieranno gli sforzi  per raggiungere l’“eccellenza” che associano alla tecnologia, all’architettura e alle  sponsorizzazioni delle aziende. Ci saranno  ancora più test e più corsi di preparazione.  I programmi saranno costruiti sempre più  in base alle necessità delle aziende, come  consiglia Thomas Friedman. I professori  continueranno a perdere prestigio e potere, e saranno sempre più sostituiti da personale precario. Un sistema tutto basato  sulle celebrità, reso possibile dai corsi online o da qualche altro espediente, alla fine  provocherà l’estinzione in massa dei veri  docenti. Sarà un cataclisma che miracolosamente risparmierà solo le amministrazioni universitarie. E l’istruzione di qualità  nelle discipline umanistiche diventerà di  nuovo prerogativa dei igli dei ricchi. E così questa distopia finirà con la corsa  per raggiungere il fondo del libero mercato. Quello che ne fa una tragedia è che Barack Obama ha ragione quando dice che  l’istruzione è importante. Non perché se  andiamo all’università in futuro guadagneremo di più o potremo competere con  il Bangladesh, ma perché la ricerca della  conoscenza è un valore in sé. È per questo  che ogni movimento democratico, dalla  guerra civile al sessantotto, ha cercato di estendere l’istruzione superiore a un maggior numero di persone, di rendere i costi  più abbordabili. La nostra, invece, è la generazione che è stata a guardare mentre un  manipolo di parassiti e miliardari distruggeva l’istruzione universitaria nel proprio  interesse. L’unica speranza è che siano gli studenti stessi a interrompere il ciclo. Forse dovremmo chiedere che alcuni atenei in difficoltà siano nazionalizzati e riorganizzati  con il sistema opposto a quello del libero  mercato, come è stato fatto nel secolo scorso con i servizi di pubblica utilità. Forse i  ragazzi che escono dalle scuole superiori  dovrebbero rinunciare al rituale delle domande di ammissione che si ripete ogni  anno e rivolgere lo sguardo alle università  tedesche o argentine. Forse è arrivata l’ora  di un altro movimento di protesta, di uno  sciopero nazionale degli studenti per chiedere la riforma delle università e l’annullamento dei loro debiti. Qualunque cosa si  faccia, è il momento di svegliarsi.


Presentazione del libro il 18 novembre, ore 15:30
Archivio del Lavoro, Via Breda 56 (Sesto San Giovanni).

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