Lo strumento potente che regola il mondo
"E' possibile che tra 50 anni le facoltà universitarie saranno organizzate molto diversamente che nella tradizione, basta che tra loro ci sia connessione” “Non si crede più alla falsa idea che la redditività sia il criterio di misura di ogni tipo di conoscenza. L’apparentemente inutile può rivelarsi utilissimo”
Maurizio Ferraris
Qualche tempo fa dei colleghi del Politecnico mi hanno invitato a pensare un programma di studi umanistici per gli studenti di ingegneria. Forse dipendeva anche dal fatto che mi è capitato spesso di occuparmi filosoficamente di tecnologia, e che da una ventina d’anni io e il mio gruppo di ricerca abbiamo creato un “laboratorio di ontologia”. O dal fatto che il corso di studi in filosofia, a Torino, ha avviato un programma internazionale nel quale gli insegnamenti sono impartiti in inglese.
Quanto dire che le discipline umanistiche non sono più quelle di una volta, ed è un argomento che merita qualche riflessione. La prima è che le discipline umanistiche non godono più della rendita di posizione, del prestigio automatico e quasi religioso che nelle società tradizionali (compresa l’Italia sino a non molti anni fa) veniva riservato all’intellettuale, che era, quasi automaticamente, un Intellettuale Umanistico. Personalmente, non vedo niente di negativo in questa trasformazione.
Perdere un prestigio di facciata può costringere le discipline umanistiche a reinventarsi nuove funzioni: a parlare nuove lingue (l’inglese, per esempio, avendo però cura di non dimenticare le altre, a cominciare dall’italiano); a dialogare con il resto della società (oggi l’espressione “torre d’avorio” in cui un tempo si sarebbero rinchiusi gli intellettuali fa sorridere più che mai); a capire che la cultura umanistica non è il contrario della scienza e della tecnica, ma è anzi una tecnologia (fatta di scrittura, interpretazione, archiviazione e invenzione) particolarmente potente necessaria anche per la scienza.
Ed è qui che arriviamo alla seconda riflessione. Anche le discipline scientifiche non sono più quelle di una volta e avvertono la necessità di incorporare componenti umanistiche, e non solo al politecnico, ma a medicina, economia, informatica. Perché una scienza che dimentichi i propri fondamenti umanistici, per esempio dimenticando l’etica della ricerca, può condurre all’assurdo di esperimenti di cui si pubblicano solo i risultati, rendendone impossibile la ripetibilità, e dunque la scientificità. Inoltre, una scienza sempre più specialistica, come necessariamente deve essere per massimizzare i risultati, chiede necessariamente di essere integrata con una solida cultura generale, pena perdere il senso di quello che fa, e persino la sua utilità pratica (una scienza efficace richiede una visione del mondo, altrimenti non si capisce quali principi e obiettivi orientino le ricerche). Infine, la scienza ha bisogno di comunicare in modo efficace, dunque ha bisogno di cultura umanistica, pena l’isolamento sociale: lo sapeva bene Galilei, e gli scienziati più illuminati non l’hanno dimenticato.
C’è una terza riflessione su cui vorrei portare l’attenzione. Circa vent’anni fa abbiamo assistito, in Italia e altrove, allo sciagurato tentativo di ridurre le discipline umanistiche a semplici formazioni professionalizzanti, ovviamente indirizzate a professioni subalterne nel grande supermercato della “società della comunicazione”. Era una scelta suicida, che metteva l’economia in primo piano, e che aveva già provocato danni altrove: negli anni Novanta il presidente peruviano Alberto Fujimori aveva decretato che l’università avrebbe dovuto impartire solo insegnamenti economicamente redditizi, e come risultato l’élite intellettuale peruviana è andata a studiare negli Stati Uniti e in Germania, per non tornare più. Dobbiamo insomma promuovere quelle che Jacques Derrida chiamava “umanità a venire”.
Cioè in primo luogo humanities capaci di interagire con le facoltà professionalizzanti, anzitutto superando l’idea falsa secondo cui la redditività economica – soprattutto se immediata – sia il criterio di misura di un sapere. Non solo perché nel lungo periodo l’apparentemente inutile può rivelarsi utilissimo, ma soprattutto perché leggere l’umanità solo in termini di economia è un errore che si paga carissimo: possiamo essere certi, in particolare, che una maggiore cultura umanistica ridurrebbe la forza di penetrazione della “post-verità”, del populismo e di altri acciacchi delle democrazie contemporanee.
Poi di humanities che favoriscano la comunicazione tra i saperi: è possibile che tra cinquant’anni le facoltà universitarie saranno organizzate molto diversamente che nella tradizione, ma quello che è certo è che questa ristrutturazione sarà tanto più efficace quanto più si sarà compreso che, come dicevo, tra scienza, tecnica e umanesimo non c’è contrapposizione, bensì una connessione essenziale. Siamo animali tecnologici e scientifici, e proprio per questo siamo esseri umani. È bene saperlo per non ripetere errori del passato. Infine di humanities consapevoli dell’imprescindibilità culturale dell’enciclopedia, dello spirito di sistema e dell’aspirazione alla totalità proprio in un mondo di crescente specializzazione: quanto più ampia e parcellizzata diviene una società, tanto più è necessario uno sguardo globale. Le discipline umanistiche sono allora chiamate a interagire con quelle scientifiche completandone l’orizzonte particolare con una prospettiva più ampia e, reciprocamente trovando per se stesse uno sbocco e una utilità nel mondo, non diretta (chi si farebbe curare da un filosofo? Io no), ma mediata (è auspicabile che i medici, i giuristi, gli economisti, gli ingegneri abbiano anche una visione generale dei problemi? Certo che sì).