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Manifesto: Sentimento precario

Un forum al manifesto con alcuni degli insegnanti precari che hanno animato la protesta sfociata nella manifestazione nazionale del 3 ottobre. Tra i tagli e la solitudine, la parola di chi, protagonista inascoltato, cerca un approccio più vivo con il proprio lavoro. Chiedono più partecipazione e collegialità, e appoggiano per dicembre uno sciopero generale di tutto il mondo dell'istruzione

01/11/2009
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il manifesto

Sara Farolfi Francesco Piccioni

Per un mese hanno animato un presidio permanente davanti al ministero dell'istruzione. Ora puntano a uno sciopero generale a dicembre. Parliamo di scuola e lo facciamo con chi, seppure inascoltato, la scuola la fa.
Partiamo da voi, siete stati un mese in presidio davanti al ministero dell'istruzione. Nel frattempo la scuola è iniziata, come avete intenzione di proseguire?
Francesco: «Pensiamo allo sviluppo di un movimento in chiave più allargata, sia rispetto alle altre componenti che con la scuola interagiscono, a partire dagli studenti, sia rispetto al collegamento con altre lotte sociali. Il 6 novembre ci saranno sit in in diverse città a difesa della scuola pubblica, noi saremo sotto la sede della Rai, per chiedere più visibilità; il 5 dicembre saremo al «no Berlusconi day» con il Prc e l'Idv. Lanciamo la proposta di uno sciopero generale per dicembre».
Fabrizia: «Come coordinamento precari, stiamo lavorando attraverso gruppi di studi - storia delle riforme degli ultimi dieci anni; didattica e pedagogia; reclutamento per gli insegnanti - con l'obiettivo di provare a mettere in piedi una proposta complessiva per ricostruire la scuola. La cosa più grave è che nessuna riforma è mai stata fatta coinvolgendo i soggetti che nella scuola ci vivono. La Moratti fece gli «stati generali», ma si trattò di un evento, non di un progetto. Perciò l'importanza della lotta sta soprattutto nella possibilità di riappropriarci del nostro lavoro, di ragionarci sopra e, per i ragazzi, di ragionare sul tipo di studi che fanno. Un approccio vivo verso le cose che facciamo. Intanto stiamo distribuendo un questionario nelle scuole, per vedere come genitori e studenti vivono la scuola oggi, se e come percepiscono l'effetto dei tagli.
Durante la mobilitazione avete puntato al nesso tra i diritti del mondo della scuola e la qualità della didattica, svincolando la protesta da una mera vertenza sindacale, che pure c'è.
Francesco: «Siamo al punto in cui se non si riconoscono i diritti di chi lavora nella scuola, e quelli delle altre componenti, neppure la scuola intesa solo come "trasmissione di contenuti" può funzionare. La difesa della scuola pubblica passa attraverso i diritti di chi nella scuola ci lavora».
Daniela: «Sulla scuola si sta facendo un'operazione solo di bilancio, i cui effetti - tralasciando per un attimo la mortificazione della figura del docente - impattano sulla qualità della formazione, sull'insegnamento. Si accorpano le classi - arrivando a contare fino a 33, persino 38 alunni per ciascuna - in sfregio a tutte le norme di sicurezza; si riduce progressivamente, oltre alle cattedre, anche l'orario scolastico, e si obbligano gli insegnanti a 18 ore di lezione frontale in cattedra. Senza investire sul personale, sulla sua stabilità, non può esserci scuola di qualità, perchè solo con la continuità di rapporto riesci a costruire un progetto, a promuovere nei ragazzi lo sviluppo di un senso critico».
Valentina: «Anche il "salva precari" è solo un progetto di bilancio, che al governo non costa niente, gravando interamente sulle regioni che sono senza una lira. Nell'ultima versione, si propone di fare tornare le giacenze delle scuole (i soldi non spesi dagli istituti) al ministero, in modo da essere redistribuite ad altre scuole per il loro funzionamento. Si ragiona sempre nell'ottica di una difficoltà generata dai tagli precedenti: non ci sono più fondi e lo stato, che non investe, cerca di recuperarli. Ora non c'è nemmeno la possibilità di chiamare i supplenti per una sostituzione di un giorno; se manca qualcuno, mandano a casa i ragazzi, oppure smembrano le classi in altre che stanno facendo lezione.
Donatello: «Per i ragazzi diversamente abili, ci sono situazioni limite con ipovedenti o ciechi a 9 ore settimanali di sostegno, quando dovrebbero averne 18. Poi se un genitore fa casino con il preside riesce a ottenere più ore per il figlio, ma queste ore vengono sottratte ad altri disabili. Perciò cerchiamo di coinvolgere studenti e genitori, perchè i genitori siano consapevoli dei diritti dei loro figli. La costituzione garantisce il diritto allo studio, ma non basta dire vai a scuola, serve una scuola di qualità. E quando ti trovi con 10 alunni di un'altra classe mentre tu stai facendo il compito, come fai a concentrarti, devi cambiare registro, cercare di includere queste altre persone e questo va anche a vanificare il lavoro in classe.
Gelmini dice che la scuola è stata un'ammortizzatore sociale per anni. I metodi erano parecchi:concorso abilitati, siss, graduatorie d'istituto, e «terza fascia» con i non abilitati; ora si aggiunge la graduatoria del salva precari. La confusione è grande...
Fabrizia: «Quello del reclutamento è un punto di discussione anche per noi. È chiara la volontà di creare un caos per arrivare al nuovo sistema, previsto dal ddl Aprea, che prevede albi regionali, nei quali i docenti si iscrivono e dove sono tenuti a rimanere per 5 anni. Le ssis vengono chiuse e ad essere abilitante sarà il "più due" dell'università. Molti di noi ritengono che la persona che va a insegnare abbia bisogno di un percorso specifico, perché non è automatico essere in grado di trasmettere i contenuti posseduti. È vero che per molti la ssis non è stata utile, però l'idea che ci sia un percorso didattico prima di entrare in classe, credo sia da salvaguardare. Altri pensano che farlo come 'più due' penalizzerà i contenuti, ma questo ha a che fare con quello che è diventata l'università».
Manuela: «Però la differenza tra chi ha fatto la ssis e chi no, si vede».
Fabrizia: «Sono d'accordo, ma è vero anche che per una fetta di persone la scuola è stata un lavoro come un altro, perché a un certo punto l'ingresso è stato semplice. A monte però c'è sempre il problema degli investimenti, perchè se investi crei una situazione che valorizza la gente che ci crede, e magari fa crescere anche gli altri».
Una riforma basata sui tagli concepisce la scuola come un contenitore di persone. Questo è un andazzo che va avanti almeno dai tempi del ministro Lombardi (il responsabile formazione di Confindustria, poi promosso ministro dell'istruzione). Di lì in poi, uno sfacelo.
Fabrizia: «Questa riforma si inserisce in una svalutazione complessiva della scuola portata avanti da governi di vario colore. Da questo punto di vista la riforma Berlinguer è stata ambigua perché da una parte prevedeva il fondo d'istituto, che consentiva di fare, attraverso i "progetti", cose non previste dai programmi scolastici (pagando agli insegnanti il lavoro in più). Ma l'altra gamba era costituita dalla flessibilità dei finanziamenti esterni: dovendo fare i conti con la progressiva riduzione dei finanziamenti statali, il fondo d'istituto si è progressivamente impoverito e i "progetti realizzati" non sono tanto quelli "belli" ma quelli che portano soldi.
Bisogna chiedersi perchè nessuna forza politica ha un'idea complessiva della scuola, che parta dai problemi che la scuola ha, senza dare risposte al ribasso. Non solo: i "progetti" hanno dato la possibilità a molti insegnanti di portare cinema e teatro a scuola, ma sulla base del volontariato. Alcuni momenti però non possono dipendere dalla buona volontà del singolo, dovrebbero essere compresi nei programmi ministeriali e questo vuol dire investire di più. L'autonomia ha dato una risposta sbagliataa un'esigenza reale. Quando abbiamo iniziato a parlare tra noi della scuola che vogliamo, la prima cosa che è emersa è la solitudine in cui lavoriamo. Ci confrontiamo con i docenti delle elementari e non capiamo perché loro per contratto abbiano la possibilità di lavorare veramente insieme e noi, al contrario, possiamo farlo solo per nostra volontà.
Francesco: «Non è casuale. Va considerata anche la riforma del titolo quinto della Costituzione, che ha permesso il finanziamento delle scuole private, aprendo una competizione tra queste e quelle pubbliche. I genitori, prima, non mandavano i figli nelle scuole private, perciò si è lavorato per screditare la scuola pubblica. Come? Rompendo la continuità didattica per esempio, mentre le scuole parificate lavorano a garantire la continuità dicendo, io ti pago meno, però tu lavori tutti gli anni con me e, se sei bravo, resti. Nella scuola pubblica l'insegnante cambia in continuazione. Qui si capisce anche dove si inserisce il ddl aprea, nel punto che prevede la "chiamata diretta" da parte dei presidi: la continuità della didattica a condizione del servilismo completo degli insegnanti. Così è la scuola pubblica che diventa privata con la privatizzazione di tutti i rapporti al suo interno. Quindi un progetto c'è eccome».
Daniela: «L'Aprea introduce gli albi regionali, poi non ci sarà più concorso o esame abilitante, ma "reti di scuole" si organizzeranno per indire un concorso; a quel punto è il dirigente scolastico, nell'autonomia finanziaria, che nomina sulla base dell'esito del concorso».
Donatello: «Una sorta di caporalato scolastico».
Francesca: «La relazione introduttiva dell'Aprea lo dice chiaramente: la scuola pubblica è malata, non più sanabile, perciò la smantelliamo per costruire un'altra cosa, un sistema integrato pubblico-privato dove gli organi collegiali non esistono, dove c'è un "consiglio di indirizzo" e la rappresentanza dei docenti è paritetica a quella dei genitori (3 docenti e 3 genitori). Rispetto alla scuola gentiliana, eccessivamente statale, questa è la prefigurazione di una scuola dove lo stato tira i remi in barca. La scuola diventa il posto dove i ragazzi devono stare il meno possibile: il tempo scuola diminuisce, e io in poco tempo che cosa posso fare? Invece di insegnare posso addestrare dei cani da circo, non certo investire sulla relazione, sulle competenze da trasmettere ai ragazzi. È un progetto culturale, non solo di bilancio».
Francesco: «Però le "riforme" passano anche quando c'è una mentalità che le sostiene. Se il docente non è consapevole di quello che avviene, tende a sostituirsi allo stato, fa un extra lavoro perché pensa che alla fine la scuola deve andare avanti. Solo così si spiega una scuola con più progetti e sperimentazioni di ogni tipo, mentre i fondi diminuivano: è l'extra lavoro degli insegnanti ad avere permesso il mantenimento della struttura della scuola pubblica. Ma questo livello di tagli, questa dimensione d'attacco, ti mostra fisicamente come non puoi più fare don Chisciotte. E se non lotti ti troverai a essere accusato di essere un fannullone, responsabile di una mancata formazione degli studenti. E c'è anche un altro aspetto: l'impostazione gentiliana era gerarchica, centrata sullo stato, con un professore che doveva trasmetterti i contenuti. Questa cosa è rimasta per molto tempo nella mentalità degli insegnanti; alcuni hanno malvisto una parte delle riforme in chiave democratica, cioè la collegialità, la partecipazione. E quando il maggiore livello di democrazia è stato collegato con l'autonomia di massa, il professore si è sentito spaesato e ha risposto tramite l'isolamento. Il combinato di questi due fattori ha impedito le risposte in chiave democratica alle riforme dell'autonomia. Perciò il corpo docente ha difficoltà a reagire, non sa reagire...».
Il quadro è chiaro: la serie di «riforme» porta a una distruzione vera. Cosa fare per non farla collassare? La vostra precarietà vi mette a cavallo di due mondi, vi costringe a porvi domande, e forse anche a dare risposte nuove.
Manuela: «Nell'autonomia c'erano degli elementi positivi (il rapporto con i territorio, la possibilità di svincolarsi dai programmi ministeriali, il collegio docenti come organismo plurale...). Nella scuola secondaria, noi siamo sostanzialmente soli a elaborare un progetto educativo, non esiste la dimensione della partecipazione. L'autonomia ti dà una chance, ti dice: tu puoi sviluppare una progettazione didattica autonoma, però lo devi fare attraverso lo strumento partecipativo».
Francesca: «Qui c'è un punto importante, tecnico: la programmazione va pagata. Un insegnante lavora in tanti modi: quando insegna in classe, quando programma le lezioni, quando corregge i compiti, quando partecipa ai collegi docenti: altro che 18 ore, io ne lavoro 36, contando tutto. Nessun paese europeo fa 18 ore di didattica frontale. Chi lo impone non si rende minimamente conto del lavoro che fa un insegnante».
Donatello: «Chi sa qualcosa di didattica sa perfettamente che la percentuale di apprendimento che passa per la lezione frontale è molto bassa, mentre il massimo dell'apprendimento lo hai nel lavoro collettivo. Allora, quello che deve venire fuori è che noi docenti vogliamo che vengano riconosciute tutte le ore di lavoro che facciamo, vogliamo essere pagati di più e vogliamo avere una formazione costante nel tempo».
Crisi e scuola, scuola e società...
Donatello: «Noi ragioniamo proprio su questo, a partire dal fatto che il degrado della scuola non è una cosa isolata da quello che accade nella società. La precarietà è diventata una cifra dell'esistenza per gran parte dei lavoratori italiani. Questo movimento precari è trasversale perché questa riforma mette il dito nel ventre molle della società italiana. Noi vorremmo essere capaci di fare di questo movimento un movimento contro la precarietà, del lavoro e della vita: genitori, studenti, lavoratori, precari della ricerca...
Francesca: «Però c'è anche una nostra specificità. Spesso dire precari vuol dire non riconoscere la persona. L'altro giorno, a Firenze, una sindacalista mi diceva: "abbiamo messo a ferro e a fuoco una città per 6 licenziamenti in una fabbrica e voi 400 insegnanti rimasti a casa dove siete, perché nessuno protesta?" Perché non veniamo percepiti, anche da noi stessi, come lavoratori. È un problema al nostro interno, c'è chi accetta tutto a testa bassa...».
Donatello: «È quello che è stato fatto nell'ultimo quindicennio: rompere i legami di solidarietà tra le persone».
Manuela: «Però quest'anno per la prima volta il precariato ha alzato la testa, e questa cosa non era affatto scontata».
Sara Farolfi Francesco Piccioni
Per un mese hanno animato un presidio permanente davanti al ministero dell'istruzione. Ora puntano a uno sciopero generale a dicembre. Parliamo di scuola e lo facciamo con chi, seppure inascoltato, la scuola la fa.
Partiamo da voi, siete stati un mese in presidio davanti al ministero dell'istruzione. Nel frattempo la scuola è iniziata, come avete intenzione di proseguire?
Francesco: «Pensiamo allo sviluppo di un movimento in chiave più allargata, sia rispetto alle altre componenti che con la scuola interagiscono, a partire dagli studenti, sia rispetto al collegamento con altre lotte sociali. Il 6 novembre ci saranno sit in in diverse città a difesa della scuola pubblica, noi saremo sotto la sede della Rai, per chiedere più visibilità; il 5 dicembre saremo al «no Berlusconi day» con il Prc e l'Idv. Lanciamo la proposta di uno sciopero generale per dicembre».
Fabrizia: «Come coordinamento precari, stiamo lavorando attraverso gruppi di studi - storia delle riforme degli ultimi dieci anni; didattica e pedagogia; reclutamento per gli insegnanti - con l'obiettivo di provare a mettere in piedi una proposta complessiva per ricostruire la scuola. La cosa più grave è che nessuna riforma è mai stata fatta coinvolgendo i soggetti che nella scuola ci vivono. La Moratti fece gli «stati generali», ma si trattò di un evento, non di un progetto. Perciò l'importanza della lotta sta soprattutto nella possibilità di riappropriarci del nostro lavoro, di ragionarci sopra e, per i ragazzi, di ragionare sul tipo di studi che fanno. Un approccio vivo verso le cose che facciamo. Intanto stiamo distribuendo un questionario nelle scuole, per vedere come genitori e studenti vivono la scuola oggi, se e come percepiscono l'effetto dei tagli.
Durante la mobilitazione avete puntato al nesso tra i diritti del mondo della scuola e la qualità della didattica, svincolando la protesta da una mera vertenza sindacale, che pure c'è.
Francesco: «Siamo al punto in cui se non si riconoscono i diritti di chi lavora nella scuola, e quelli delle altre componenti, neppure la scuola intesa solo come "trasmissione di contenuti" può funzionare. La difesa della scuola pubblica passa attraverso i diritti di chi nella scuola ci lavora».
Daniela: «Sulla scuola si sta facendo un'operazione solo di bilancio, i cui effetti - tralasciando per un attimo la mortificazione della figura del docente - impattano sulla qualità della formazione, sull'insegnamento. Si accorpano le classi - arrivando a contare fino a 33, persino 38 alunni per ciascuna - in sfregio a tutte le norme di sicurezza; si riduce progressivamente, oltre alle cattedre, anche l'orario scolastico, e si obbligano gli insegnanti a 18 ore di lezione frontale in cattedra. Senza investire sul personale, sulla sua stabilità, non può esserci scuola di qualità, perchè solo con la continuità di rapporto riesci a costruire un progetto, a promuovere nei ragazzi lo sviluppo di un senso critico».
Valentina: «Anche il "salva precari" è solo un progetto di bilancio, che al governo non costa niente, gravando interamente sulle regioni che sono senza una lira. Nell'ultima versione, si propone di fare tornare le giacenze delle scuole (i soldi non spesi dagli istituti) al ministero, in modo da essere redistribuite ad altre scuole per il loro funzionamento. Si ragiona sempre nell'ottica di una difficoltà generata dai tagli precedenti: non ci sono più fondi e lo stato, che non investe, cerca di recuperarli. Ora non c'è nemmeno la possibilità di chiamare i supplenti per una sostituzione di un giorno; se manca qualcuno, mandano a casa i ragazzi, oppure smembrano le classi in altre che stanno facendo lezione.
Donatello: «Per i ragazzi diversamente abili, ci sono situazioni limite con ipovedenti o ciechi a 9 ore settimanali di sostegno, quando dovrebbero averne 18. Poi se un genitore fa casino con il preside riesce a ottenere più ore per il figlio, ma queste ore vengono sottratte ad altri disabili. Perciò cerchiamo di coinvolgere studenti e genitori, perchè i genitori siano consapevoli dei diritti dei loro figli. La costituzione garantisce il diritto allo studio, ma non basta dire vai a scuola, serve una scuola di qualità. E quando ti trovi con 10 alunni di un'altra classe mentre tu stai facendo il compito, come fai a concentrarti, devi cambiare registro, cercare di includere queste altre persone e questo va anche a vanificare il lavoro in classe.
Gelmini dice che la scuola è stata un'ammortizzatore sociale per anni. I metodi erano parecchi:concorso abilitati, siss, graduatorie d'istituto, e «terza fascia» con i non abilitati; ora si aggiunge la graduatoria del salva precari. La confusione è grande...
Fabrizia: «Quello del reclutamento è un punto di discussione anche per noi. È chiara la volontà di creare un caos per arrivare al nuovo sistema, previsto dal ddl Aprea, che prevede albi regionali, nei quali i docenti si iscrivono e dove sono tenuti a rimanere per 5 anni. Le ssis vengono chiuse e ad essere abilitante sarà il "più due" dell'università. Molti di noi ritengono che la persona che va a insegnare abbia bisogno di un percorso specifico, perché non è automatico essere in grado di trasmettere i contenuti posseduti. È vero che per molti la ssis non è stata utile, però l'idea che ci sia un percorso didattico prima di entrare in classe, credo sia da salvaguardare. Altri pensano che farlo come 'più due' penalizzerà i contenuti, ma questo ha a che fare con quello che è diventata l'università».
Manuela: «Però la differenza tra chi ha fatto la ssis e chi no, si vede».
Fabrizia: «Sono d'accordo, ma è vero anche che per una fetta di persone la scuola è stata un lavoro come un altro, perché a un certo punto l'ingresso è stato semplice. A monte però c'è sempre il problema degli investimenti, perchè se investi crei una situazione che valorizza la gente che ci crede, e magari fa crescere anche gli altri».
Una riforma basata sui tagli concepisce la scuola come un contenitore di persone. Questo è un andazzo che va avanti almeno dai tempi del ministro Lombardi (il responsabile formazione di Confindustria, poi promosso ministro dell'istruzione). Di lì in poi, uno sfacelo.
Fabrizia: «Questa riforma si inserisce in una svalutazione complessiva della scuola portata avanti da governi di vario colore. Da questo punto di vista la riforma Berlinguer è stata ambigua perché da una parte prevedeva il fondo d'istituto, che consentiva di fare, attraverso i "progetti", cose non previste dai programmi scolastici (pagando agli insegnanti il lavoro in più). Ma l'altra gamba era costituita dalla flessibilità dei finanziamenti esterni: dovendo fare i conti con la progressiva riduzione dei finanziamenti statali, il fondo d'istituto si è progressivamente impoverito e i "progetti realizzati" non sono tanto quelli "belli" ma quelli che portano soldi.
Bisogna chiedersi perchè nessuna forza politica ha un'idea complessiva della scuola, che parta dai problemi che la scuola ha, senza dare risposte al ribasso. Non solo: i "progetti" hanno dato la possibilità a molti insegnanti di portare cinema e teatro a scuola, ma sulla base del volontariato. Alcuni momenti però non possono dipendere dalla buona volontà del singolo, dovrebbero essere compresi nei programmi ministeriali e questo vuol dire investire di più. L'autonomia ha dato una risposta sbagliataa un'esigenza reale. Quando abbiamo iniziato a parlare tra noi della scuola che vogliamo, la prima cosa che è emersa è la solitudine in cui lavoriamo. Ci confrontiamo con i docenti delle elementari e non capiamo perché loro per contratto abbiano la possibilità di lavorare veramente insieme e noi, al contrario, possiamo farlo solo per nostra volontà.
Francesco: «Non è casuale. Va considerata anche la riforma del titolo quinto della Costituzione, che ha permesso il finanziamento delle scuole private, aprendo una competizione tra queste e quelle pubbliche. I genitori, prima, non mandavano i figli nelle scuole private, perciò si è lavorato per screditare la scuola pubblica. Come? Rompendo la continuità didattica per esempio, mentre le scuole parificate lavorano a garantire la continuità dicendo, io ti pago meno, però tu lavori tutti gli anni con me e, se sei bravo, resti. Nella scuola pubblica l'insegnante cambia in continuazione. Qui si capisce anche dove si inserisce il ddl aprea, nel punto che prevede la "chiamata diretta" da parte dei presidi: la continuità della didattica a condizione del servilismo completo degli insegnanti. Così è la scuola pubblica che diventa privata con la privatizzazione di tutti i rapporti al suo interno. Quindi un progetto c'è eccome».
Daniela: «L'Aprea introduce gli albi regionali, poi non ci sarà più concorso o esame abilitante, ma "reti di scuole" si organizzeranno per indire un concorso; a quel punto è il dirigente scolastico, nell'autonomia finanziaria, che nomina sulla base dell'esito del concorso».
Donatello: «Una sorta di caporalato scolastico».
Francesca: «La relazione introduttiva dell'Aprea lo dice chiaramente: la scuola pubblica è malata, non più sanabile, perciò la smantelliamo per costruire un'altra cosa, un sistema integrato pubblico-privato dove gli organi collegiali non esistono, dove c'è un "consiglio di indirizzo" e la rappresentanza dei docenti è paritetica a quella dei genitori (3 docenti e 3 genitori). Rispetto alla scuola gentiliana, eccessivamente statale, questa è la prefigurazione di una scuola dove lo stato tira i remi in barca. La scuola diventa il posto dove i ragazzi devono stare il meno possibile: il tempo scuola diminuisce, e io in poco tempo che cosa posso fare? Invece di insegnare posso addestrare dei cani da circo, non certo investire sulla relazione, sulle competenze da trasmettere ai ragazzi. È un progetto culturale, non solo di bilancio».
Francesco: «Però le "riforme" passano anche quando c'è una mentalità che le sostiene. Se il docente non è consapevole di quello che avviene, tende a sostituirsi allo stato, fa un extra lavoro perché pensa che alla fine la scuola deve andare avanti. Solo così si spiega una scuola con più progetti e sperimentazioni di ogni tipo, mentre i fondi diminuivano: è l'extra lavoro degli insegnanti ad avere permesso il mantenimento della struttura della scuola pubblica. Ma questo livello di tagli, questa dimensione d'attacco, ti mostra fisicamente come non puoi più fare don Chisciotte. E se non lotti ti troverai a essere accusato di essere un fannullone, responsabile di una mancata formazione degli studenti. E c'è anche un altro aspetto: l'impostazione gentiliana era gerarchica, centrata sullo stato, con un professore che doveva trasmetterti i contenuti. Questa cosa è rimasta per molto tempo nella mentalità degli insegnanti; alcuni hanno malvisto una parte delle riforme in chiave democratica, cioè la collegialità, la partecipazione. E quando il maggiore livello di democrazia è stato collegato con l'autonomia di massa, il professore si è sentito spaesato e ha risposto tramite l'isolamento. Il combinato di questi due fattori ha impedito le risposte in chiave democratica alle riforme dell'autonomia. Perciò il corpo docente ha difficoltà a reagire, non sa reagire...».
Il quadro è chiaro: la serie di «riforme» porta a una distruzione vera. Cosa fare per non farla collassare? La vostra precarietà vi mette a cavallo di due mondi, vi costringe a porvi domande, e forse anche a dare risposte nuove.
Manuela: «Nell'autonomia c'erano degli elementi positivi (il rapporto con i territorio, la possibilità di svincolarsi dai programmi ministeriali, il collegio docenti come organismo plurale...). Nella scuola secondaria, noi siamo sostanzialmente soli a elaborare un progetto educativo, non esiste la dimensione della partecipazione. L'autonomia ti dà una chance, ti dice: tu puoi sviluppare una progettazione didattica autonoma, però lo devi fare attraverso lo strumento partecipativo».
Francesca: «Qui c'è un punto importante, tecnico: la programmazione va pagata. Un insegnante lavora in tanti modi: quando insegna in classe, quando programma le lezioni, quando corregge i compiti, quando partecipa ai collegi docenti: altro che 18 ore, io ne lavoro 36, contando tutto. Nessun paese europeo fa 18 ore di didattica frontale. Chi lo impone non si rende minimamente conto del lavoro che fa un insegnante».
Donatello: «Chi sa qualcosa di didattica sa perfettamente che la percentuale di apprendimento che passa per la lezione frontale è molto bassa, mentre il massimo dell'apprendimento lo hai nel lavoro collettivo. Allora, quello che deve venire fuori è che noi docenti vogliamo che vengano riconosciute tutte le ore di lavoro che facciamo, vogliamo essere pagati di più e vogliamo avere una formazione costante nel tempo».
Crisi e scuola, scuola e società...
Donatello: «Noi ragioniamo proprio su questo, a partire dal fatto che il degrado della scuola non è una cosa isolata da quello che accade nella società. La precarietà è diventata una cifra dell'esistenza per gran parte dei lavoratori italiani. Questo movimento precari è trasversale perché questa riforma mette il dito nel ventre molle della società italiana. Noi vorremmo essere capaci di fare di questo movimento un movimento contro la precarietà, del lavoro e della vita: genitori, studenti, lavoratori, precari della ricerca...
Francesca: «Però c'è anche una nostra specificità. Spesso dire precari vuol dire non riconoscere la persona. L'altro giorno, a Firenze, una sindacalista mi diceva: "abbiamo messo a ferro e a fuoco una città per 6 licenziamenti in una fabbrica e voi 400 insegnanti rimasti a casa dove siete, perché nessuno protesta?" Perché non veniamo percepiti, anche da noi stessi, come lavoratori. È un problema al nostro interno, c'è chi accetta tutto a testa bassa...».
Donatello: «È quello che è stato fatto nell'ultimo quindicennio: rompere i legami di solidarietà tra le persone».
Manuela: «Però quest'anno per la prima volta il precariato ha alzato la testa, e questa cosa non era affatto scontata».