Mqanifesto: Non c'è un euro e la riforma traballa
RICERCA La protesta dei ricercatori e degli studenti in tutto lo stivale. A Roma presidio davanti al Senato. Ma in Commissione cultura la maggioranza respinge l'emendamento del Pd che avrebbe permesso l'assunzione dei giovani ricercatori dopo sei anni. Mancano le risorse, e il destino dell'università si lega sempre più alla paralisi economica UNIVERSITÀ Nessuna stabilizzazione per i precari. Nemmeno dopo 6 anni
Roberto Ciccarelli ROMA
ROMA
Quando tra i tavolini dei ristoranti in piazza Navona si è appena placato il trillo dei fischietti che ha accompagnato il flash mob dei ricercatori in sciopero contro il Disegno di legge Gelmini sull'università, la delegazione del movimento che ieri ha incontrato per più di due ore la commissione cultura del Senato ha iniziato a riferire sull'esito dell'incontro. L'amplificazione con mezzi di fortuna non aiuta l'ascolto. I cinquecento manifestanti, per lo più delle università romane e con una partecipazione da Napoli e Salerno, Firenze, Milano e Torino, fanno capannello.
Apprendono così che è stato svuotato uno dei pilastri di una legge che intende favorire l'ingresso dei giovani ricercatori nella carriera universitaria, la cosiddetta «tenure track» che istituisce un contratto triennale rinnovabile per altri tre anni. La questione potrebbe sembrare tecnica, ma in realtà cambia lo spirito dell'intero provvedimento ribadito ieri dal ministro Gelmini secondo la quale questa misura dovrebbe permettere ai giovani di entrare in ruolo da «professori associati», svecchiando l'università e premiando i meritevoli.
Martedì scorso il Pd ha presentato un emendamento che vincola questo contratto all'esistenza di un fondo che permette l'assunzione dopo sei anni, senza il quale è difficile pensare che il 3+3 sia un altro modo per allungare il periodo di precariato che oggi è il più lungo nell'occidente. Una norma del resto assente nel Ddl, sollecitata a suo tempo dalla Conferenza dei Rettori, che ha spinto i ricercatori precari alla protesta e sta preoccupando non poco quelli strutturati che denunciano in tutta Italia il rischio di una «guerra tra poveri». Ebbene, l'emendamento è stato bocciato dalla maggioranza perché - come si legge nel resoconto sommario della seduta - si tratterebbe di «una soluzione punitiva per i ricercatori a contratto». Alla richiesta della delegazione di avere spiegazioni su questa motivazione incomprensibile - assumere giovani non è nell'interesse dello stesso governo? - il relatore della legge Giuseppe Valditara ha ammesso che l'introduzione di un simile vincolo sarebbe irrealistico vista l'attuale penuria di fondi.
Sono molti altri i temi dominanti di questa «riforma» che mette in esaurimento il ruolo dei ricercatori collocandoli su un «binario morto», ma quello della «tenure track» è stato eletto a marchio smagliante di una nuova era. Con una differenza però di sostanza: nei paesi anglosassoni, dove questo percorso è stato ideato, le università che bandiscono questi posti si assumono l'onere di finanziare la carriera del ricercatore assunto fino al ruolo di ordinario. Un aspetto del tutto assente nel progetto governativo. Per una mobilitazione sorretta da una forte competenza sulle questioni tecniche e giuridiche riguardanti l'università non c'era forse bisogno di questa conferma. Ma, certo, sentirsela ribadire da chi sta discutendo sul futuro della formazione superiore in Italia è tutt'altra musica. Emerge ormai la consapevolezza, di solito assente nelle dichiarazioni ufficiali, che questa riforma potrebbe anche non avere le gambe per camminare.
La difficoltà in cui si trova in questo momento il governo, stretto tra la prossima manovra finanziaria da 28 miliardi di euro - con l'annunciato blocco delle assunzioni nel pubblico impiego - e i tagli da 1,5 miliardi di euro al fondo di finanziamento per gli atenei stabilito due anni fa dalla legge 133, potrebbe allungare i tempi di discussione della legge in parlamento. La commissione terminerà la discussione nelle prossime ore. Il Ddl andrà in Senato forse il prossimo mese. Poi toccherà alla Camera per tornare, infine, al Senato. Ci sono dunque probabilità di arrivare al prossimo autunno. Salvo impennate decisionistiche dell'ultimo minuto. Sebbene il relatore abbia assicurato alla delegazione il proprio impegno ad eliminare i tagli dopo il 2011 - vedremo come - nei prossimi mesi sarà sempre più difficile separare il destino scientifico da quello economico dell'università. Una politica improntata al rigore del bilancio spinge inevitabilmente a scrivere le norme della nuova legge sulla misura dei tagli già stabiliti. Quella che uscirà alla fine di questo faticoso, e prevedibilmente contrastato, provvedimento non sarà un'università migliore, ma una che dovrà sopravvivere senza fondi.