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Ofelèe faa el to’ mistèe…

di Franco De Anna

23/05/2014
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ScuolaOggi

Gli amici lombardi forse riconosceranno un antico modo di dire milanese (il dialetto ha sempre trascrizioni problematiche). “pasticcere (che fa le ofelle, dolci di pasta sfoglia, si vendevano per la strada) fai il tuo mestiere (non occuparti di ciò che non sai)”. La reazione (non proprio “urbana” lo confesso..) di fronte alle ultime dichiarazioni ministeriali (mense scolastiche, durata del ciclo di studi, programmazione accessi universitari) è stata il richiamo a quel vecchio modo di dire.

Eppure, non sono tra quelli che sostengono che per fare il ministro della Sanità si debba essere un medico, o un giurista per quello della Giustizia. Estendiamo il motto del grande Von Clausevitz “la guerra è cosa troppo seria per affidarla ai generali…”. Così non credo si debba essere un insegnante, e neppure un Rettore, per fare il Ministro della Pubblica Istruzione. Il “mestiere” a cui rimando e per il quale invoco qualche professionalità in più è quello di politico, dunque responsabile di elaborare linee generali di interpretazione del bene comune e darne conto ai cittadini, contemporaneamente responsabile (stando al Governo) di un segmento di amministrazione e dunque del suo funzionamento e del suo esser in grado di realizzare concretamente gli impegni dichiarati nelle linee generali di cui sopra. Si avvalga al meglio di ogni professionalità concreta necessaria all’opera. Su questo sarà giudicato.
Sicchè, in questa ottica, il ministro può pure essere un “dilettante” nella materia specifica (istruzione, sanità, giustizia…) la “professionalità” che si richiede è altra, quella ricordata sopra. Con una aggiunta da  meditare. In francese per indicare ciò che noi spesso traduciamo come “dilettante” si usa il termine “amateur”… amatore. Forse riflettere su questo significativo scarto semantico può essere utile per individuare un altro ingrediente fondamentale (l’amore, e non di sé..) per fare davvero il mestiere del politico.
Ma andiamo con ordine.

C’è libertà di opinione: si può sempre sostenere che sia giusto che le singole prestazioni erogate dal servizio pubblico ai cittadini siano proporzionali al prezzo che essi sono disponibili a pagare per ciascuna di esse. Vuoi il dolce alla mensa scolastica? Pagherai un conto diverso da chi è più austero.
Non esprimo giudizio a priori su tale opinione. Un grande economista come Samuelson sosteneva che la misura del valore economico dei servizi pubblici fosse rapportata al “prezzo” che i cittadini sarebbero disposti a spendere per averli (indipendentemente dal fatto che nella realtà siano non in  esborso diretto ma tramite fiscalità, o che vi sia un vero e proprio “mercato”, come negli Stati Uniti). Ma questi sono problemi di macroeconomia di sistema.
Chiedo al pasticcere dilettante (amateur..) di immaginare una classe di bambini a mensa e Pierino che quel giorno abbia voglia di un dolcetto che ha visto in mano a Mario, e che se lo veda negare perché non sta nel “conto”…. Ora, possiamo anche tentare di spiegargli le ipotesi di calcolo del Samuelson, ma è probabile che dovremmo prioritariamente misurarci con gli effetti psicopedagogici di tale frustrazione. (Ma forse sarebbe sufficiente il “buon senso”. A meno che la nostra fiducia nella lotta di classe non sia così smisurata…Ma ultimamente, in quella lotta vincono i ricchi).
Libertà di opinione; se non fosse che funzione essenziale dello Stato (sta parlando un Ministro..) rispetto ai servizi erogati ai cittadini (chiunque ne abbia la competenza produttiva)  sia quella di indicare i Livelli Essenziali di Prestazione che presiedono al valore fondamentale dell’uguaglianza tra i cittadini. (Costituzione Titolo V)
Ora il Ministro, personalmente, può essere affezionato a quella opinione. Ma se proprio deve fare dichiarazioni (consigliabile il silenzio..) su quanto avviene in un piccolo Comune circa l’erogazione dei dolci in una mensa scolastica, non può scostarsi dalla sua mission costituzionale, di garante dell’uguaglianza dei cittadini rispetto ai livelli essenziali delle prestazioni pubbliche.
Ma c’è di più, purtroppo: lo Stato, il Ministero, non hanno competenza alcuna circa l’organizzazione dei servizi che sono di competenza dell’Ente Locale (il Comune in questo caso rispetto alla mensa). Nell’elaborare le proprie dichiarazioni (meglio il silenzio…) il margine era strettissimo: rimandare alla responsabilità produttiva e gestionale dei servizi di competenza dell’Ente Locale (è lì che i cittadini devono chiedere conto) e semmai recuperare il criterio costituzionale dell’uguaglianza rispetto ai livelli essenziali di prestazione. Invece…
Invece si richiama l’autonomia scolastica, come fosse tra le sue prerogative la produzione dei servizi di cui ha invece responsabilità gestionale e produttiva il Comune. Si indica cioè un responsabile “sbagliato”, un vero e proprio infortunio giuridico che si assomma a tutti gli altri.
Così un banale caso di “castroneria” amministrativa locale diventa “questione” politica che aumenta la confusione delle reazioni, invece che promuoverne la razionalità.
Io non voglio ridurre le responsabilità di quella amministrazione comunale; ma ricordo a tutti noi che nella stagione della povertà delle risorse disponibili, la fenomenologia delle soluzioni che le amministrazioni comunali (specie di piccole dimensioni) hanno pensato di mettere in campo per diminuire i costi costituisce un vero florilegio di “invenzioni” che spesso non hanno nulla a che fare con il principi di fondo della erogazione di servizio pubblico, e sono invece testimonianza di un “arrangiarsi” di improvvisati amministratori locali. Ma se per aggiunta ad oscurare e opacizzare la chiarezza di tali principi contribuisce anche il “pasticcere”…

Seconda questione. Due ministri fa un predecessore dell’attuale Ministro, e di schieramento politico non opposto, mise al lavoro una commissione di esperti (quorum ego) per elaborare uno studio-proposta sul tema dell’accorciamento del ciclo di studi (insomma l’uscita ai 18 anni). Ne usci un prodotto molto articolato di analisi, argomentazioni, proposte, opzioni.
Naturalmente la consegna del “prodotto” richiesto completò l’ingaggio: la vera soddisfazione sta nel portare a termine al meglio il lavoro (gratuito, cela va sans dire.. ). Anche se ci si aspetta, con qualche attesa di compiacimento, che il “pasticcere” ne dia un qualche riscontro…
Poiché credo di averci dato intenso contributo, mi permetto di ricordare (e qualche collega membro di quella commissione potrebbe nel caso completare la memoria) almeno qualche punto saliente, sia nell’analisi che nella proposta.

  1. L’universalizzazione della scuola dell’infanzia è nel nostro paese ancora lontana dal realizzarsi e le esperienze reali per quantità e qualità sono distribuite con grande difformità sul territorio nazionale. E’ lungi dall’essere “sistema”. Dove funziona al meglio è di grande e riconosciuta qualità.
    La “domanda sociale” di anticipo scolare si distribuisce in modo inversamente proporzionale ai livelli di estensione e qualità del servizio (la domanda di anticipo in Campania, per esempio, è tre volte più elevata che in Lombardia).
    Ciò significa che alla scuola dell’infanzia, in tali situazioni, viene dato semplice valore di servizio assistenza e non di essenziale fase formativa. L’anticipo ha significato sociale distorto.
    Quanto al significato formativo… evidentemente dipende da cosa eventualmente vien fatto in quell’anno… Ma come si comprende la discussione pedagogica in proposito è tutt’altro che riassumibile in una intervista o in un articolo.
    Rimane “politicamente” il problema del fare leva su uno strumento di significato sociale per lo meno ambiguo, se non negativo. Mentre l’obiettivo di procedere anche gradualmente alla “universalizzazione” del sistema della scuola per l’infanzia si offre con limpidità alla scelta politica e declina anche il valore pedagogico (rispetto alla domanda sociale) che la politica stessa non può non esercitare, indirizzandola.
    Nella commissione citata l’opzione anticipataria, pure analizzata fu in buona sostanza declinata dalla maggior parte dei membri.
  2. Grande riflessione fu posta invece sul ciclo attuale elementare-media-superiore, e in particolare sui punti di snodo (istituzionali-ordinamentali, di programmi e indicazioni didattiche  e pedagogiche, di organizzazione ed impegno del personale) e sulla possibilità di migliorarne e razionalizzarne i tempi e le distribuzioni.
    In particolare affrontando quello che appare il punto debole del sistema che è rappresentato dal passaggio alla secondarietà degli studi, intesa nelle accezioni diverse, psicologiche, cognitive, epistemologiche. Si tratta del vero punto debole del ciclo di istruzione.
    Il problema è stato affrontato nei termini del come decostruire e ricostruire un percorso di 12 anni di formazione sotto il profilo della distribuzione dei tempi, delle organizzazioni, delle “enciclopedie” formative, mantenendo alcune proposizioni consolidate come quella dell’obbligo ai 16 anni, della articolazione tra scuola/formazione professionale/apprendistato/formazione permanente, della articolazione autonoma (ma per davvero…) del curricolo superiore, del rapporto con l’Università e l’istruzione terziaria.
    Ma anche della progressiva individualizzazione e personalizzazione del curricolo superiore: si pensi al fatto che un 18enne oggi può decidere chi governa il Paese, ma quasi nulla circa il suo corso di studi..
    In quella sede, en passant, si indicò la stessa possibilità di estensione del servizio civile post istruzione superiore, che oggi sembra alimentare proposte da parte di altro “pasticcere” (è di conforto..).
    Ovviamente non poteva non essere indicato anche un impegno particolare (e a mio parere radicale) sulla struttura degli Esami di Stato di fine ciclo (quelli della secondaria di primo grado vanno risolutamente aboliti perché privi di significato ordinamentale come “esami di Stato”).
    Se l’impegno formativo dell’ultimo anno della Superiore viene ormai ridimensionato e strettamente finalizzato (cognitivamente e psicologicamente) alla effettuazione dell’Esame di Stato e “su quelle materie”, la mortificazione di tempi e modi appare evidente.
    Le difformità valutative delle “Commissioni Ministeriali” testimoniate dalla distribuzione territoriale degli esiti e soprattutto dalla conclamata inversa correlazione tra essi e i test di ingresso universitari, credo ponga anche i più strenui difensori de “L’esame di Sato” di fronte all’indifendibile.

Come che sia, un lungo ed articolato documento di proposte. Se pensiamo che il problema sia solo quello di scorciare o meno un anno, operando all’inizio o alla fine del ciclo di studi, possiamo pure farne semplice oggetto di interviste. Ma occorre sapere che ogni semplicismo nelle proposte otterrà una ulteriore semplicismo, fino alla rudimentalità, nelle risposte, che siano di consenso o di dissenso.
Così si andrà dal presentare la cosa come adattamento all’Europa (non è vero..), alle esigenze del risparmio (la condizione che presentammo nel nostro lavoro di commissione era quella di “parità di risorse” e dunque sul come ridistribuire sull’intero ciclo gli eventuali risparmi del suo accorciamento); o alla levata di scudi dei professori (soprattutto di Liceo) pronti a  tutelare il quinto anno come fondamentale tappa della formazione dei giovani…
Tutto tranne discutere a fondo e appropriatamente, quali che siano le opinioni di partenza, di una proposta che non può che decostruire e ricostruire strutturalmente il ciclo di istruzione, e non operando con la forbice o l’attaccatutto ai suoi estremi (abbiamo esempi anche autorevoli di questo riduzionismo politico nelle polemiche di questi giorni. Riduzionismo che richiama, è vero,  molte responsabilità; ma se comincia il “pasticcere”…).
Su un tema come questo che riguarda l’assetto dell’ordinamento del sistema non si rilasciano interviste, ma si apre un vero confronto politico e sociale e culturale, mettendo in grado i partecipanti di entrarvi con il dovuto approfondimento ed estensione di analisi. Il bravo pasticcere dilettante (amateur) sa che questo è il modo per finalizzare e valorizzare politicamente le tante professionalità di mestiere che sono disponibili.

Infine la questione della programmazione degli accessi universitari.
Credo non sfugga l’ironia triste della storia che pone tale problema oggi ad un paese in una fase in cui si assiste alla caduta effettiva e tendenziale delle immatricolazioni.
Dunque il problema “programmatorio” si pone non tanto rispetto ad una domanda sociale aggregata, quanto alla sua distribuzione finalizzata, settoriale e anche territoriale. Semmai, in termini generali si pone il problema complessivo di recupero del valore generale assegnato e riconosciuto socialmente  alla istruzione superiore.
E, se volessimo stare ad enunciati ancora più generali (ma meritano un intervento a sé e di ben altro spessore; qui solo si accenna), forse potrebbe questa essere l’occasione per riaggiustare il tiro della politica del mercato del lavoro, finora faticosamente, dispersivamente e contraddittoriamente condotta sul fronte dalla “domanda” (forme contrattuali, agevolazioni, flessibilità, defiscalizzazioni, immaginifiche sorti miracolose di aumento di occupazione per esito di forme normative e non di investimenti reali…); dicendo qualche cosa anche in termini di “politica dell’offerta” di lavoro, rispetto alla quale la “formazione” rappresenta un addensamento di “valore”.
La programmazione dell’istruzione superiore ha, storicamente, avuto due sostanziali forme di espressione: la prima ha a che fare con i Paesi che un tempo si chiamavano “in via di sviluppo” e con quelli del cosiddetto “socialismo reale”. In entrambi i casi essa faceva parte degli strumenti della “programmazione economica” e della “politica di piano”, cercando e tentando quantificazioni sensate tra domanda e offerta di istruzione superiore, posto che essa costituiva peso specifico importante entro la spesa delle risorse economiche dei singoli Paesi.
V’è da dire (ma a posteriori è affermazione generale la cui specificità sfuma nel tempo e nelle diverse esperienze) che non sempre la programmazione ed il calcolo garantirono tale funzionalità (si pensi all’eccesso di medici, e spesso di ottima qualità, per il quale la piccola Cuba oggi esporta tali professionalità nel più grande, e più ricco, Brasile..), e che, per altro verso, un tratto comune della programmazione economica dell’istruzione superiore nei modelli di socialismo reale si accompagnò (e i “residui” sono ancora oggi presenti) con una forte ispirazione unitaria dei livelli di istruzione precedenti e di base.
L’altro “modello” fu quello dei Paesi capitalistici del secondo dopoguerra e caratterizzato da impetuoso sviluppo economico industriale e dalla costruzione dei sistemi di welfare universalistico (in particolare la Sanità e la Scuola) che erano fonte di costante domanda di lavoro a quantità crescenti e di livelli crescenti di istruzione (insegnanti, medici).
Il “modello” non ebbe bisogno di “programmazione e calcolo”, e si espresse invece in chiave di progressiva “apertura e liberalizzazione”, lasciando che il gioco del mercato e dello sviluppo reale  e delle vocazioni e convenienze individuali trovassero assennata composizione.Si pensi alla progressiva liberalizzazione degli accessi universitari nel nostro Paese, resa totale a partire dal 1969).
La storia personale di molti della mia età fu proprio la fortunata e assennata congiunzione tra le opportunità di quella fase di sviluppo (economia reale e sistemi di welfare) e le scelte e vocazioni individuali: ho un diploma in elettronica industriale dei primi anni ’60 (ed è inutile ricordare le prospettive di sviluppo che anche simbolicamente il settore interpretava); ed ho una laurea scientifica che non c’entra nulla con il diploma ma che sembra fatta su misura per l’insegnamento che mi interessava come professione.
Voglio per altro ricordare a chi non ha memoria, che il basso numero di laureati e diplomati è una costante storica del nostro Pese e non una novità recente. (Una famosa ricerca SVIMEZ  sul fabbisogni di laureati e diplomati per il nostro sviluppo, della metà degli anni ’60, fece testo, ancorchè le sue quantificazioni fossero sottostimate. Curiosa, in proposito, la permanenza per anni di un falso stereotipo per il quale in Italia erano “tutti dottori”. Ogni tanto affiora ancora oggi).
Del resto è analogamente storicamente costante la incapacità italiana di saturare l’offerta di lavoro entro lo sviluppo nazionale, rimediandovi con diversi strumenti: dal basso tasso di attività (cui andrebbe sempre riportato il tasso di occupazione, per capire davvero come stanno le cose) alla immigrazione, un tempo delle braccia, oggi dei cervelli…Per tacere di “battaglie del grano” o di imprese coloniali.
Dunque il problema contingente (programmazione a medicina) è un aspetto emergente di un iceberg: giusto cercare e trovare soluzioni contingenti, ma attenzione alla parte sommersa che può capovolgere ogni imbrigliamento apparente.
Lo sviluppo dei due settori di welfare che sono caratterizzati da maggiore intensità di lavoro vivo e di alta scolarizzazione sono la Scuola e la Sanità.
Sotto il profilo del calcolo (con tutte le approssimazioni) dei fabbisogni futuri, posto il carattere universalistico dei servizi relativi, non è difficile produrre larghe ma significative stime.
Certo tenendo conto di due fondamentali articolazioni: la prima riguarda le distribuzioni territoriali; la seconda le articolazioni professionali interne a tali fabbisogni, che non si esprimono certo semplicemente attraverso figure professionali univoche e tradizionali, come il docente di scuola o il “medico”. (se si confrontano prestazioni lavorative, livello di competenze, intensità di impegno, modalità di retribuzione, tra un medico che opera nel sistema ospedaliero e un “medico di famiglia” vi è un abisso..).

Possibile di fronte a tale complessità, trovare la soluzione dicendo “facciamo entrare tutti, poi selezioniamo dopo il secondo anno”? Ma che formazione garantiamo e “ci” garantiamo? I laboratori “scientifici” hanno una oggettiva “composizione tecnica” superiore a quelli “filosofici e letterari “ (con tutto il rispetto per questi ultimi, quando vi sono). E tale elevata “composizione tecnica” ha elevati “costi e investimenti”.
Dunque la sfida della programmazione è ben più impegnativa di quella con qualche TAR, sempre in grado di respingere bocciature ed esclusioni. Ma intanto il “pasticcere” può provvedere con rigore a garantire: 1) una distribuzione territoriale degli accessi universitari che sia articolata e si rivolga al complesso delle domanda quale che sia la sua concentrazione vocazionale/territoriale. Lo stesso dicasi per le alternative figure professionali comunque attinenti al sistema Sanitario (non solo medici); 2) Garantire “di imperio” l’equità e la confrontabilità degli esiti e delle condizioni di ingresso a “prova di TAR” e di “diritti quesiti” (non “acquisisti”, ma “quesiti”). Qui non c’è autonomia delle Commissioni di Esame che tenga. C’è il valore di eguaglianza tra i cittadini nel concorrere tra loro a parità di condizioni. Del resto le “prove di ingresso” esistono in tutti i sistemi del mondo.
Mi rendo conto però del “retrostante” o meglio della parte sommersa dell’iceberg, quando si parli di programmazione dell’istruzione superiore.
Proprio per il limite non universalistico della istruzione superiore e per i suoi costi diversamente distribuiti in relazione alla “composizione tecnica” dei diversi curricoli universitari, per i caratteri “pubblici” di molti dei più consistenti settori di concentrazione della domanda di lavoro, qualunque “pasticcere” ha in realtà a che fare con due radicali problematiche: la prima è il rapporto con lo sviluppo economico complessivo e dunque pone capo al problema di una politica dell’offerta di lavoro ( e la sua qulità garantita dall’istruzione e formazione) che si confronti con il carattere e gli obiettivi della politica economica;… del cui bisogno ciascuno dice ma di dove sia nessun lo sa…
La seconda è invece il rapporto con le “corporazioni” delle cosiddette “libere professioni” che pure condizionano e spesso vincolano strettamente la politica della domanda di istruzione superiore, e ne condizionano sotteraneamente l’offerta.
Per esempio, che in Italia si abbia a che fare con un generale esiguo numero di laureati e con immatricolazioni in calo e contemporaneamente con la maggiore concentrazione di Avvocati a livello mondiale è un problema nel problema. Che ha qualche proiezione anche sul precedente che riguarda medicina.
Purtroppo per tutti, dal “pasticcere” al dilettante (amateur), da chi rilascia interviste, a chi si indigna, lo spessore dei problemi rifugge da qualche estemporanea e semplice soluzione.

Non credo sia troppo chiedere ad un Ministro ( a qualunque scuola di pensiero appartenga) di comunicare almeno tale complessità e richiamare l’impegno tecnico scientifico necessario a trovare soluzioni assennate. Esattamente come non credo sia troppo chiedere a chi porta responsabilità di elaborazione e organizzazione culturale collettiva (sindacati, Associazioni, media) di immettere una dose supplementare di rigore scientifico nelle proprie prese di posizione e polemiche politiche.


Presentazione del libro il 18 novembre, ore 15:30
Archivio del Lavoro, Via Breda 56 (Sesto San Giovanni).

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