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Previsioni di cambiamenti climatici ed economiche: due pesi e due misure

di Francesco Sylos Labini

08/12/2015
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ROARS

Alla conferenza di Parigi sul clima, dal 30 novembre all’11 dicembre, i governi sono tenuti a trovare un accordo sulle politiche da intraprendere a livello globale per il decennio successivo al 2020, quando si esauriranno gli impegni attuali in materia di emissioni di gas serra.

La comprensione dei cambiamenti climatici globali, a differenza del “meteo” ordinario, pone dei problemi teorici e osservativi molto rilevanti. Per quanto riguarda la modellizzazione teorica, la difficoltà è dovuta al fatto che giocano un ruolo importante contemporaneamente variabili che hanno tempi-scala molto lunghi (millenni, come ad esempio quelli che governano le circolazioni profonde), variabili che hanno tempi-scala di mesi (tipiche delle strutture geofisiche), fino a quelle che hanno un tempo scala molto breve (ore/giorni, che sono connesse al fenomeno della turbolenza). Da un punto di vista osservativo le misure storiche del clima sono ottenute, ad esempio, dai profili di temperatura dalle trivellazioni, dai carotaggi nel ghiaccio, dall’analisi di strati di sedimenti, registrazioni dei livelli del mare del passato, ecc. D’altra parte i cambiamenti climatici più recenti possono essere misurati solo su scale di tempo relativamente lunghe, dell’ordine almeno di qualche decennio. Mentre alcune cause del cambiamento di lungo periodo del clima sono ben note – come le variazioni nella radiazione solare ricevuta dalla Terra, la tettonica a zolle, le eruzioni vulcaniche, ecc. – il problema cruciale è però stabilire se le attività umane siano causa rilevante del recente riscaldamento globale.

Venticinque anni fa è stato fondato il gruppo di esperti intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC) cui è stato attribuito del premio Nobel per la pace nel 2010 per il lavoro svolto. L’ultimo rapporto, del 2013 ha posto dei solidi punti fermi nella modellizzazione e nell’osservazione dei cambiamenti climatici. Tre variabili climatiche cruciali, considerate dall’IPCC nel 1995, in altre parole la concentrazione di carbonio, la temperatura superficiale e l’aumento del livello del mare, non solo hanno seguito la tendenza prevista, ma sono sostanzialmente risultate all’interno dell’incertezza della previsione.

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Per questo motivo il messaggio sostanziale dell’IPCC è oggi incontestabile: i gas serra stanno alterando il clima della Terra – si valuta che l’influenza umana abbia causato più della metà dell’aumento della temperatura nel periodo 1951-2010. Non si può però ancora prevedere con ragionevole affidabilità quale sia il tasso di riscaldamento nei prossimi anni: l’intervallo di temperatura del riscaldamento, che sarebbe indotto da un raddoppio dei livelli di biossido di carbonio nell’atmosfera, dovrebbe essere nell’intervallo 1,5-4,5 gradi. Questa stima, pubblicata per la prima volta nel 1990, è stata confermata di nuovo nel 2013.

Gli scienziati hanno dunque accumulato abbastanza evidenze da affermare che se le emissioni di gas a effetto serra continuano ad aumentare, passeremo la soglia oltre la quale il riscaldamento globale diventa catastrofico e irreversibile. Tale soglia è stimata come un aumento di temperatura di 2 gradi al di sopra dei livelli pre-industriali: con gli attuali tassi di emissioni ci stiamo dirigendo verso un aumento di circa 4-5 gradi. Questo potrebbe non sembrare molto, ma la differenza di temperatura tra il mondo di oggi e l’ultima era glaciale è di circa 5 gradi, cosicché piccole variazioni di temperatura possono significare grandi differenze per la Terra, e soprattutto per i suoi abitanti.

Se l’IPCC è l’autorità scientifica principale sul riscaldamento globale, il problema cruciale rimane il rapporto tra scienza, informazione (veicolata dai mass-media) e politica. Infatti, mentre secondo alcuni sondaggi l’opinione pubblica considera sempre meno il cambiamento climatico come una minaccia grave e urgente, non è mai stato così importante rendere le persone consapevoli della gravità delle conseguenze del riscaldamento globale. Questo disinteresse è ingiustificato poiché i cambiamenti climatici avranno conseguenze dirette sulla vita di tutti gli abitanti del mondo colpendo il loro stile di vita e il loro portafogli, ed è per questo necessario coinvolgerli attivamente. Alla radice della scarsa attenzione che emerge dai sondaggi ci sono ragioni politiche ed economiche che riguardano la gran parte dei paesi del mondo, certamente con diverse gradazioni di responsabilità.

Da un lato, i paesi più sviluppati non vogliono rispettare i mandati del Protocollo di Kyoto (firmato nel 1997) poiché tale comportamento pregiudicherebbe le loro economie. Questi paesi giustificano in parte il loro ritardo imputando ai paesi poveri di non aver preso alcuna misura di “mitigazione” – cioè di contenimento degli effetti negativi del cambiamento climatico. A loro volta i paesi poveri affermano che i paesi più industrializzati non hanno alcun diritto di imporre loro di adottare tutte le misure perché i primi si sono industrializzati a loro spese, e comunque le proprie emissioni per abitante sono inferiore a quelle dei paesi ricchi. Vi è inoltre una nutrita schiera di scettici rispetto al cambiamento climatico: costoro sostengono che non ci siano minacce immediate, ma sono spesso finanziati dalle industrie che emettono alti tassi di anidride carbonica. Infine vi è una forte correlazione tra la prospettiva politica di un certo organo d’informazione e la sua posizione sul cambiamento climatico. Ad esempio, è un fatto che i media che promuovono l’economia e di libero mercato contro l’intervento dello Stato sono molto più inclini a citare commenti scettici sul cambiamento climatico.

A parte i casi in cui interessi specifici influenzano le opinioni, c’è comunque un problema intrinseco alla previsione scientifica che deve essere correttamente compreso e trasmesso all’opinione pubblica. Infatti, come mostrato anche dalle figure sopra riportate, una previsione scientifica è necessariamente accompagnata da un’incertezza che deriva dall’imperfetta comprensione dei fenomeni fisici, dall’approssimazione con cui si conosce la realtà, ecc. La difficoltà nel comprendere il limite della previsione da parte dell’opinione pubblica, come anche nel trasformare le previsioni in protocolli di sicurezza per le popolazioni, è sicuramente connessa al problema dell’incertezza. Un problema che si può affrontare con razionalità, ma non risolvere del tutto, poiché la scienza convive sempre con l’incertezza.

È decisivo quindi il nesso tra gli scienziati (che possono e anzi devono spiegare i limiti delle loro previsioni), l’informazione (che ha il dovere di fornire elementi all’opinione pubblica cercando di riportare correttamente il senso dei risultati scientifici), e decisori politici (che devono trasformare le previsioni in protocolli d’intervento). È il punto centrale della discussione sul problema dei cambiamenti climatici per sensibilizzare in modo appropriato i cittadini.

In realtà, le previsioni climatiche sono molto più affidabili delle principali previsioni economiche, cui spesso fanno riferimento sia i governi che i mass media rispettivamente  per prendere importanti decisioni politiche e per creare il consenso intorno ad esse. Ad esempio, in questo articolo si considerano una selezione di previsioni a lungo termine chiave – popolazione, debito-Pil e prezzo del petrolio:

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Come si nota le osservazioni reali cadono ben al di fuori delle previsioni (e dell’incertezza di queste per il caso del prezzo del petrolio) che riguardano temi molto rilevanti per la società. Se poi consideriamo le previsioni della crisi del 2008, per quanto riguarda quelle degli economisti neo-classici (ovvero la maggior parte degli economisti), la posizione è ben riassunta dal governatore della Banca Centrale d’Australia Glenn Stevens che  ha così immortalato la reazione degli economisti neoclassici alla crisi finanziaria globale: “Io non conosco nessuno che abbia predetto il corso degli eventi […] Quello che abbiamo visto è veramente una ‘coda’ , il tipo di risultato che il processo di previsione di routine non prevede.”  La grande crisi non è, infatti, stata anticipata da alcun modello economico neoclassico. Perché per queste previsioni i media, e con essi di conseguenza  l’opinione pubblica, sono molto più indulgenti?

L’evidenza scientifica sembra fornire elementi sempre più solidi che mostrano che i cambiamenti climatici rappresentano una minaccia di grandi dimensioni. I negoziati politici internazionali hanno chiaramente mostrato che si deve adottare un criterio di equità per arrivare ad accordi efficaci e realmente applicabili. Serve dunque combinare le conoscenze scientifiche (compresa la giusta considerazione del “fattore incertezza”) e la volontà politica, assieme a un’informazione onesta e seria. Se le nazioni riusciranno a concordare obiettivi equi sul clima nella conferenza di Parigi, sarà un trionfo per la cooperazione internazionale, a vantaggio del nostro benessere e della nostra sicurezza.

(Una versione ridotta di questo articolo è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano e un’altra su Aspenia)


Presentazione del libro il 18 novembre, ore 15:30
Archivio del Lavoro, Via Breda 56 (Sesto San Giovanni).

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