Renzi e l’università di serie A e B: i diversi piani del discorso
Sulle parole di Renzi in merito alle università di serie A e B è opportuno distinguere diversi livelli di discorso. Una cosa è la constatazione di un fatto: che esistano diverse realtà universitarie in Italia e che si siano università migliori e altre peggiori. Ma oltre al livello della constatazione, v’è quello del dover essere:
Francesco Coniglione
Sulle parole di Renzi in merito alle università di serie A e B è opportuno distinguere diversi livelli di discorso. Una cosa è la constatazione di un fatto: che esistano diverse realtà universitarie in Italia e che si siano università migliori e altre peggiori. Ma oltre al livello della constatazione, v’è quello del dover essere: l’idea che sia giusta e che debba esistere una differenziazione tra università di serie A e B. Una sorta di traduzione neo-liberale del darwinismo sociale: i vincitori devono essere premiati in modo che domani possano vincere ancora di più e siano in grado di distanziare i loro competitori. Prima si destruttura il sistema universitario, si approfondiscono le differenze, si definanzia e poi si dice: vedete, la situazione è questa e quindi dobbiamo fare di necessità virtù. Un po’ come premiare i ricchi, con ulteriori emolumenti, perché sono stati bravi ad arricchirsi.
Sulle parole di Renzi in merito alle università di serie A e B ci sarà il solito tiro alla fune e il classico conflitto delle interpretazioni. A parte le “spiacevoli conseguenze” che ne seguono se si dovesse in tal modo valutare la realtà universitaria italiana (messe bene in luce in modo paradossale dall’articolo già pubblicato su Roars), nel discorso del Premier e nei commenti che ne sono seguiti è opportuno distinguere diversi livelli di discorso, la cui confusione non può che ingenerare equivoci e malintesi.
Infatti una cosa è la constatazione di un fatto: che esistano diverse realtà universitarie in Italia e che si siano università migliori e altre peggiori. E questa è una mera presa d’atto, allo stesso modo di come lo è affermare che ci sono uomini diversi tra loro: uno con i capelli biondi, l’altro bruni, uno più dotato nella musica, l’altro nella matematica, uno più bello, l’altro più brutto e così via. Negare questo non sarebbe solo un’operazione di mera ideologia, ma di semplice e pura idiozia. E di ciò ci guarderemmo da ritenerne affetto il nostro Premier.
Ma anche a fermarci a questo punto, anche a voler ammettere questa diversità, già il giudizio sfoca quando non si prendano le università come una totalità omogenea, senza alcuna differenziazione interna: una massa di gelatina in cui tutto è uguale a se stesso, come nella notte di Hegel, nella quale tutte le vacche sono nere. E infatti le vacche e i buoi di ciascun ateneo sono ben diversi: le stesse classifiche dell’Anvur (ma ci sono altre classifiche che danno quadri ben differenti!) fanno vedere come per ciascuna università vi siano settori (dipartimenti, campi di ricerca ecc.) che sono eccellenti, a livello di “competizione internazionale”, e altri invece che sono alquanto carenti. Pertanto se si vogliono penalizzare le università in quanto tali – come di serie A e B – si farebbe la classica opinione di gettare l’acqua sporca col bimbo dentro: si penalizzerebbero i settori eccellenti in università che si definiscono di serie B; e si verrebbero a premiare settori pessimi in università di serie A. Questa differenziazione interna alle università – spesso molto più accentuata di quella esterna tra le università – è un portato storico dell’evoluzione del nostro sistema accademico che non può essere cancellato con un tratto di penna.
Ma oltre al livello della constatazione di un fatto, v’è quello del dover essere: l’idea che sia giusta e che debba esistere una differenziazione tra università di serie A e B, perché solo in questo modo è possibile competere internazionalmente. Ebbene nel discorso di Renzi sembra che si passi dalla prima affermazione alla seconda senza avere chiara consapevolezza, non solo dei problemi insiti già al primo livello, ma del fatto che così facendo si enuncia un modello di università e di formazione superiore che obbedisce ad un disegno politico e non si limita solo estrapolare una situazione di fatto. Infatti sulla base di tale constatazione potrebbero essere implementati due atteggiamenti diversi: (a) data la differenza tra le università, bisogna attuarre delle strategie che mirino quanto più possibile alla sua riduzione, finanziando e accompagnando maggiormente, con specifici programmi a ciò finalizzati (e non generiche elargizioni di denaro) quelle che sono in difficoltà; (b) vista la situazione di fatto, approfondiamo e ulteriormente radichiamo questa differenza, in direzione di un sistema universitario polare, col “premiare” e “incoraggiare” le università che già sono in vantaggio e sono “migliori” delle altre. È questa seconda strategia quella che sembra essere stata scelta da Renzi e che è alla base dell’operato dell’Anvur.
Ed è chiaro che ciascuna di queste due strategie cela in sé una prospettiva complessiva, anche in considerazione del fatto che le università sono radicate nel territorio e che il declassamento o la promozione di esse comporta un riflesso significativo anche nel contesto sociale ed economico che le ospita. La prima strategia si muove nell’ottica della solidarietà (una volta si diceva: politica egualitaria o di redistribuzione della ricchezza) e del non permettere che gli ultimi diventino ancora più ultimi; nel caso specifico, che il Mezzogiorno (tutte le prime 20 università sono da Roma in su), diventi ancora più lontano dal resto d’Italia, avvicinandosi sempre più alle sponde dell’Africa. La seconda è invece una sorta di traduzione neo-liberale del darwinismo sociale: i vincitori devono essere premiati in modo che domani possano vincere ancora di più e siano in grado di distanziare i loro competitori, i quali devono adattarsi ad un ruolo secondario. Quale di queste due politiche sia quella preferita definisce di fatto il tasso di distanza dai principi ispiratori della nostra Costituzione e da quelli che erano una volta i caratteri identitari della sinistra.
Infine v’è un altro piano del discorso: quello che riguarda la genesi della situazione attuale e che costituisce anche la prognosi per quella futura: il constatare l’esistenza delle differenze, per farne un principio normativo, è una bella impresa se queste sono generate da una politica universitaria negli ultimi anni concepita proprio per portare a questo risultato, che ora si legge come una sorta di destino scritto nelle stelle. Prima si destruttura il sistema universitario, si approfondiscono le differenze, si definanzia e poi si dice: vedete, la situazione è questa e quindi dobbiamo fare di necessità virtù. E v’è chi è caduto in questa trappola (come dimostra il recente libro di Pivato, Al limite della docenza).
E allora precisiamo quel che vogliamo e cerchiamo di decrittare il discorso di Renzi distinguendo le sue articolazioni interne. Ma più importante, cerchiamo di avere in testa innanzi tutto il modello di università – e di conseguenza di società – a cui vogliamo aspirare. Di conseguenza decidiamo anche a cosa debba servire il processo di valutazione che oggi ci perseguita: ad affrontare le situazioni di difficoltà e a permettere il loro riassorbimento, oppure a sostenere e ulteriormente rafforzare chi è già in posizione di vantaggio? Il meccanismo premiale di certo si muove in una sola, ben precisa direzione, quella che sul piano sociale equivarrebbe alla decisione di premiare i ricchi, con ulteriori emolumenti, perché sono stati bravi ad arricchirsi.