Repubblica-La MANAGER E I SEDICENNI
La MANAGER E I SEDICENNI MICHELE SERRA - E' PROBABILE che il ministro Moratti, quando parla di "una scuola orientata alla crescita individuale e sociale della persona... che aiuti i gi...
La MANAGER E I SEDICENNI
MICHELE SERRA
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E' PROBABILE che il ministro Moratti, quando parla di "una scuola orientata alla crescita individuale e sociale della persona... che aiuti i giovani a realizzarsi pienamente attraverso una vita fatta di valori", dica esattamente quello che pensa. Ma è altrettanto probabile che non si renda conto di rappresentare una cultura piuttosto difforme, nella teoria e nella prassi, da quegli ottimi propositi. A partire dalla forma scelta per i suoi Stati Generali (senza studenti e senza sindacati, non era meglio chiamarla convention?), il ministro Moratti incarna molto autorevolmente un modello "freddo" di efficientismo manageriale che ha l'evidente svantaggio di non essere del tutto credibile quando parla di "valori" e di "persona", e di esserlo, eccome, quando in fondo al suo taglia e cuci fa balenare il sospetto di una semiprivatizzazione della pubblica istruzione.
Politica a parte, nell'ennesimo subbuglio che traversa la scuola italiana si intravvede una profonda refrattarietà giovanile per modelli adulti già ampiamente codificati, e vincenti, nel mondo del lavoro, e ora, con il governo di centrodestra, decisi a uniformare anche sanità, scuola e addirittura giustizia (si parla di "premi di produttività" per i magistrati più solerti. Possibile che tutto ma proprio tutto abbia un prezzo?).
Questa diffidenza sorprende, naturalmente, un governo che gode di una larga maggioranza ed è incline a considerare reazionaria e complottarda ogni critica. Ma coglie in contropiede anche l'opposizione, in fondo così rassegnata alla forza straripante di quei valori (non suoi) di predominanza del privato e del profitto, da non capacitarsi della loro improvvisa impopolarità, e vulnerabilità.
Eppure, non era difficile immaginare che l'invadenza e la prosopopea della cultura aziendalistica avrebbero innescato, prima o poi, una qualche reazione (e in questo senso non ha torto, tecnicamente, chi taccia di "reazionario" il movimento degli studenti). Il fatto che questa reazione parta proprio dalla scuola e dal mondo giovanile in genere, può stupire solo chi ha dimenticato gli umori, le speranze e anche le velleità dell'adolescenza. Anche se è improprio e indelicato giustapporre la propria esperienza di generazione, la parte più significativa (e migliore) della rivolta giovanile di fine anni Sessanta non fu quella ideologica, ma quella esistenziale (quella ideologica, semmai, provvide a devastare quella esistenziale). Si diceva, allora, che "la Seicento e il posto in banca" non potevano rappresentare, come direbbe il ministro Moratti, un "valore" per le "persone" che si affacciavano alla società di massa. Mutate le cilindrate e le ambizioni, pare proprio che l'impostazione iperprofessionale delle riforma morattiana, con la scuola che minaccia di diventare il cingolo di trasmissione delle aziende e del mercato del lavoro, susciti in molti ragazzi sentimenti ugualmente claustrofobici: e in questo senso '#8212; almeno in questo '#8212; non è affatto illegittimo riscontrare alcune somiglianze di clima, e di umore, tra i ragazzi di trent'anni fa e quelli di adesso. Quali che siano gli esiti di questo movimento, i cappelli politici che qualcuno vorrà e potrà mettergli in testa, le intemperanze dei noglobal, le scorciatoie ideologiche sempre perniciose, la sensazione è che la "way of life" di noi adulti stia molto stretta ai giovani. Né ciò che la demagogia e il quieto vivere suggeriscono (blandire il movimento), né le tentazioni repressive, riusciranno a spostare di molto la sostanza del problema, se la sostanza è, come credo, che una società fondata solo sulla carriera, sul pareggio dei conti e sui consigli di amministrazione non è una società nella quale, a sedici anni, si desidera vivere.