Scuola, pensieri random
di Mila Spicola
Mettetevi comodi, ci sono un po’ di questioni che vorrei condividere con voi, così, a saltare, senza nemmeno perder tempo a strutturare il discorso in modo lineare.
Iniziamo da una ricorrente. Soldi alle private? No. La penso da sempre come Rodotà: sono contraria a fondi pubblici per le scuole private. Per una questione di principio non di soldi. Perchè non credo che le somme destinate alle private risolverebbero i problemi della scuola. Il bilancio interno della Scuola è di circa 80 miliardi l’anno. I soldi alle private sono circa 400 milioni. Io voglio toglierli per principio e coerenza, ma so che non è con 400 milioni che rendo la scuola statale “adeguata ai propri fini”. Questo Paese tutto (non i governanti ma gli elettori) deve capire che per rendere la scuola adeguata ai propri fini ci vogliono somme in più adeguate, certo non le bazzeccole dei 400 milioni, che tra l’altro ha già destinato Letta con il suo Decreto Scuola appena approvato che non credo che porterà alla scuola grandi mutamenti.
Il perno del problema è che, secondo me, e di questo voglio parlarvi, si deve mettere mano alla riorganizzazione del nostro mondo a cominciare dai docenti.
Non siamo la scuola di 40 anni fa, che aveva ben altri numeri (meno studenti), altre risorse e un’altra Italia. Oggi siamo la scuola di tutti, finalmente, in un Paese profondamente diverso: in crisi economica ma anche etica, meno coeso da questo punto di vista, con valori una volta scontati e condivisi da difendere oggi da capo e volta per volta. Siamo in un mondo profondamente diverso: in mutazione e in pieno smottamento. Abbiamo sì un corpus culturale da trasmettere ma da ridefinire proprio nelle modalità e nel senso di trasmissione. Di fronte a tutto ciò, per portare avanti i “tutti” che abbiamo faticosamente ammesso nella Scuola, anche i deboli, anche gli ultimi, anche gli stranieri, serve un impianto di scuola diverso. Che si inventi un nuovo modo di promuovere le eccellenze e di recuperare le debolezze. E che punti su queste due cose potendolo fare. Non come pii desideri destinati a rimanere tali.
Abbiamo vinto una sfida: di avere tutti i bambini, adesso dobbiamo vincere l’altra sfida profonda di portarli tutti, a prescindere dai loro vissuti e dal fato che li ha fatti nascere in un posto piuttosto che in un altro, a raggiungere tutti almeno il livello della sufficienza, a condurli tutti al diploma, come mezzo di crescita individuale del singolo e collettiva del sistema Italia. Lasciando per una buona volte alle ortiche la convinzione che “chi non ha testa di studiare se ne vada a lavorare anche senza pezzo di carta”. Perchè chi rimane fuori dai saperi oggi rimane fuori dal mondo. Io sono cosciente che questa sarebbe la vera rivoluzione politica e storica mai compiuta nel nostro Paese. Altro che Rivoluzione Francese. Non so se ne son coscienti tutti. Alcuni di quelli che remano contro forse sì.
Dalla scuola per pochi alla scuola per tutti, alla scuola che recupera tutti.
L’impianto di scuola che oggi abbiamo è di fatto ancora quello selettivo gentiliano che non riesce a portare avanti tutti. Con modalità tacite o meno tacite, contrastate o meno, la scuola di oggi è ancora legata a un sistema che la condanna ad essere la scuola selettiva e discriminatoria. Non è colpa nostra, di noi docenti, ma il sistema è predisposto in un modo tale che ci ritroviamo di fatto a doverlo assecondare. Gli scarsi di qua e i bravi di là. Con poche e difficilissime condizioni per trasformare “gli scarsi” almeno in sufficienti. E con l’enorme esercito dei “sufficienti” sempre stabile.
La prima modalità che si era messa in campo per mutare questo assunto era stata la scuola elementare coi moduli. E’ il sistema della scuola che recupera gli ultimi e cerca di predisporre la condizione per il recupero di tali ultimi. Anzi, di più, era un sistema predisposto per evitare che i divari si formassero, volendo agire fin dai primissimi anni. Annullato. Demagogicamente e ciecamente.
La seconda modalità è quella che tenta di evitare l’insorgere delle debolezze prima ancora della scuola: l’asilo. E’ l’unico modo per contrastare le differenze enormi in entrata nel ciclo della scuola formale.
Asili? Annullati, non ce ne sono, soprattutto là dove servono di più, cioè dove è certo che si formeranno debolezze: nelle aree depresse del Paese. In Sicilia si varia dall’1% al 6 % di possibilità per i bambini di accedere all’asilo, in altre aree del Paese si raggiunge il 40% e siamo nelle eccezioni. E sempre con una gran confusione di dati: non si capisce mai quali siano le differenze tra asilo, scuola materna, scuola dell’infanzia. Aiuterebbe parlare di ciclo prescolare 0-6 anni? Aiuterebbe. I dati e le rilevazioni provano il legame diretto tra successo scolastico e anni prescolari (asilo, scuola materna, nido) frequentati.
La terza modalità potrebbe essere impiantare il tempo pieno obbligatorio nelle aree del Paese a più alto rischio debolezza (e sono esattamente le aree dove il tempo pieno latita), attivando processi individualizzzati costanti per il recupero degli ultimi e per il potenziamento dei primi.
La quarta modalità: agire sul motore della scuola, creare un corpo docente forte (dal punto di vista formativo e professionale) e compatto, che abbia strumenti lessicali e professionali comuni per poter attivare confronti, scambi e reti nel merito dei nodi pedagogici e didattici, anche per sperimentare tesi e impianti teorici tutti in divenire in modo scientifico rigoroso, a cui fa seguire le diverse pratiche estese. E qua parliam di cose veramente serie.
Un corpo professionale capace di portare avanti la “contrattazione” dei metodi didattici, dei fini pedagogigi e delle visioni di politiche scolastiche su una base comune di lessico, di formazione e di missione è veramente quello che si augurano i sistemi incancreniti e immobili delle burocrazie ministeriali, o gli uffici polverosi e mal gestiti degli uffici scolastici regionali e provinciali di tutta Italia?
Siamo il corpo di lavoratori del pubblico servizio più numeroso. Sapete cosa vorrebbe dire avere quasi un milione di teste attive e messe in rete e formate in modo eccellente a parlar e fare scuola in modo unitario? Non omologato attenzione, unitario? Quando si pensa alle rivoluzioni è proprio alla comunanza informativa e formativa che si fa riferimento. Non so se sono chiara. Se oggi si fa un’indagine nel corpo docente su un qualunque argomento ne viene fuori una frammentazione abnorme di posizioni, a partire dalle basi conoscitive sul merito delle cose e dei problemi, perchè abnorme è la differenza di formazione dei singoli docenti, come anche di selezione, come anche di condizioni strutturali o contestuali in cui si opera.
Faccio un esempio: l’idea di griglia o criterio valutativo che ha una collega della primaria è completamente diversa dall’idea di griglia o criterio valutativo di una collega di liceo, quando questa ultima ce l’abbia..perchè viene fuori da un percorso formativo e selettivo di tipo esclusivamente conoscitivo della disciplina insegnata non di tipo pedagogico didattico, non solo, non avendolo maturato nella formazione, sarà portata a rifiutarlo a priori. Nello stesso tempo: una docente di italiano di una scuola primaria di Trento si trova ad operare in condizioni strutturali e contestuali completamente diverse da quelle di una collega di Canicattì, non solo: con un bagaglio formativo diverso e con dei processi di selezione diversi.
Mi capita spessissimo di sentire a docenti di scuole superiori “a me basta dare il mio voto e va benissimo così”. Ma “il mio voto” cos’è, cara collega? Se il tuo sei non corrisponde al sei della collega della stessa disciplina della classe accanto? E’ una finzione, non altro. E così via tutto il resto. Dai processi ai metodi. Ecco: una formazione comune in servizio o iniziale servirebbe non ad omologare ma a motivare e a comprendere nel merito, le scelte, le assunzioni e i rifiuti. Ad essere coscientemente soggetti di libertà d’insegnamento. Lo diciamo sempre no? Senza conoscenza non c’è libertà.
Nemmeno puoi spiegare queste cose al cittadino comune, è così ancorato a un’ idea di scuola chederiva dalla sua percezione di ragazzino, che al massimo può fornire opinioni sulla sua personale esperienza facendo spallucce se discuti in modo acceso di processi, metodiche, organizzazioni didattiche. Il cittadino medio immagina il docente per come lo ha vissuto e visto: qualcuno che entra nella classe e poi esce dalla classe. E finisce là. Nulla può, giuistamente, dire circa tutto il lavoro che c’è prima, durante e dopo a quella “entrata in classe”. La quale cosa vale per l’ortolano, per il medico, per il politico, per il Premier. Il che blocca la scuola a un’idea profondamente provinciale, deprofessionalizzata e naif .
Pensieri e ipotesi sulle cose da farsi.
Per migliorare la scuola dunque forse aiuterebbe un processo di uniformazione non dei metodi o delle pratiche ma delle conoscenze e dei lessici, prima di allargarsi a proporre mutamenti o modifiche al sistema organizzativo strutturale. E’ un’ipotesi che andrebbe percorsa.
Un nuovo e più adeguato sistema formativo comunque è necessario: con la laurea non esci insegnante oggi. Anche se sei il miglior laureato d’Italia e sei arrivato primo al concorso. Esci “lavorante generico”, arrivi in classe ad agir come non lo sai nemmeno tu. Arrivi in un consiglio di classe o in una scuola in cui ci son mille teste con mille definizioni diverse per ogni cosa e non sai nemmeno di cosa si parli se non ne hai incontrato la trattazione nel percorso universitario: docimologia? analisi dei processi didattici, metodologia…strategia? Inizialmente tutto si risolve in un approccio troppo spesso naif. E se non sai cosa sono, metodi, processi e metodologie, la prima cosa che viene in testa è il rifiuto di “queste teorie” e ci si ritrova a reiterare meccanismi per imitazione che si traggono dalla personale esperienza scolastica. Ci si affida alle proprie risorse, si cerca di instaurare una qualche relazione con le classi e si fa lezione. Bene che vada dopo tre giorni ti chiederai: Ma com’è che queste cavallette non mi ascoltano? E penserai che non ci son più i ragazzi di una volta…Poi, piano piano maturerai modalità per far qualcosa comunque. Per spiegare, verificare…e pensi che questo sia insegnare. Qualcuno si mette a studiare. Poi scopri che quasi tutti ci mettiamo a studiare. Ma lo facciamo in un modo così sconnesso, frammentato e discontinuo che i nostri studi iniziano e finiscono nelle nostre classi, senza riuscire mai fare sistema nel sistema. Perchè il sistema non te lo chiede.
Non va bene. Scordiamoci questa leggenda che conta l’esperienza, oggi avere strumenti professionali adeguati e e un sistema di conoscenze pedagogico-didattiche comuni all’ingresso è indispensabile, perchè intanto che ti fai “l’esperienza” sono passati dieci anni di mestiere e le difficoltà e le richieste del mestiere oggi sono tante e tali che non si può derogare più.
Persino le sperimentazioni possibili devono essere guidate da coscienza professionale dei processi che stai mettendo in campo.
Nella primaria tutto questo è più facile da far capire, sono gli unici che hanno un’idea delle problematiche, avendo seguoto percorsi di scienze della formazione. Molto più difficile è parlarne con docenti di scuola superiore: laureati in matematica, in lettere, in scienze,..bravissimi nelle loro discipline..ma..monchi. Il terreno di confronto poi si fa complessissimo per mancanza, ripeto, di lessico comune e di definizione dei temi e dei problemi. E’ solo un fattore discrezionale e personale se poi ci siano ottimi insegnanti o meno. Questo fattore ad oggi non è una condizione professionale fornita e verificata dal sistema in partenza, nè dai mezzi formativi, nè da quelli selettivi: le oscure “competenze professionali della docenza” non sono richieste più di tanto nei prerequisiti per accedere ai concorsi per docenti. Perchè non sono previste nemmeno nei percorsi formativi.
Difficilmente si recupererà dopo, la formazione in servizio è poi discontinua se non assente (nelle scuole autonome c’è poco, quando c’è) ed è uno degli anelli deboli. Il bravo docente diventa una figura mitologica che misuri e individui nel campo, non una precondizione verificata nella selezione, in base ad alcune competenze specifiche che si sono sviluppate nel percorso di studi. Diciamola tutta: perchè non si dà valore alcuno alle competenze specifiche professionali che qualificano la professione docente. Non se ne parla, non si sa cosa siano, non le individua il cittadino, perchè ne è all’oscuro, no le regola il legislatore, e la differenza tra il docente bravo e quello meno bravo è quella generica e retorica tra “eroe” o “fannullone privilegiato”. Ecco: non riconoscere le competenze professionali specifiche di un docente è stato il primo passo per la dequalificazione della professione in termini salariali e sociali.
Questa di sopra non vuole essere una recriminazione ma un dire come stanno le cose per poterle cambiare in vista di un miglioramento.
Per cui cadiamo dal pero tutti, persino noi docenti, nell’apprendere che in una recente ricerca inglese sono i docenti italia a trovarsi a fianco di quelli finlandesi per competenza e per influenza positiva sugli studenti. Cosa vuol dire? Vuol dire che, nonostante i bachi del sistema il singolo docente una professionalità, tacitamente, silenziosamente, faticosamente e autonomamente la matura.
Il gruppo più numeroso e qualitativamente alto di docenti del programma europeo di digitalizzazione didattica Etwinning ad esempio è italiano. Il problema è che non si fa sistema, non c’è lo spazio per il confronto e non c’è un’organizzazione superiore tale da mettere in rete e istituzionalizzare studi, sperimentazioni, aggiornamenti.
L’assurdo è che il docente che vuole farlo può oggi aggiornarsi con estrema difficoltà, spesso a sue spese, con ricatti psicologici, con scambi e con sensi di colpa. I casi in cui non è così sono eccezioni. Mi si dirà che non tutti i docenti si aggiornano: io dico invece che quasi tutti tentano di farlo e incontra strade in salita. Sapete perfettamente che è così, cari colleghi. Chi di voi ha chiesto al proprio preside permessi per seguire dei corsi ha dovuto sguainare le spade per ottenerli e ha dovuto pagarseli. Il danno oltre la beffa. Beh no: studio e ricerca sono funzioni strutturali della docenza, non accessori della docenza. Averlo dimenticato è il primo indebolimento di qualificazione professionale.
Eppure trattano di cose importanti, essenziali, ineludibili. Quante campagne informative nazionali si mettono in campo contro il bullismo? Un’infinità: su tv e stampa. A che servono? A nulla. Quante formazioni nazionali invece si predispongono per i docenti delle scuole superiori sulle dinamiche di individuazione e contrasto educativo del bullismo? Nessuna. E così per ogni tema.
Altro esempio cruciale. Quante campagne nazionali di formazione dei docenti sulla metodologia di condivisione della conoscenza e non della trasmissione della conoscenza si son fatte? I processi di apprendimento oggi sono quasi esclusivamente per condivisione e non più per trasmissione. Chi ne parla? In quali momenti di confronto ci si interroga in modo strutturato e organizzato? Mai. Prof Spicola di cosa stai parlando? Appunto. Perchè ci si stupisce dell’ apatia nello studio di numeri sempre più alti di studenti? Forse perchè “i ragazzi di oggi sono senza interessi”? Ne siam sicuri? O perchè ci sono problemi enormi di linguaggio e di paradigmi didattici da rivedere?
No, non è la retorica della digitalizzazione, è il desiderio di affrontare il nodo vitale del cambiamento, è il terreno di scontro che stiamo vivendo in questo istante. E’ la riflessione su cosa sia mutato nel mondo. Sono problemi filosofici che si riflettono poi nel mondo culturale. Chi ne parla? Stiam qua a fissarci sul tablet senza prima aver almeno discusso di questo? Quando ha smesso la scuola di essere il primo riflesso del mondo culturale?
Da quando l’insegnante si è trasformato da intellettuale a impiegato togliendogli lo spazio e la funzione dello studio in servizio? A qualcuno tutto ciò ha giovato. Non ai docenti. A chi fa comodo la mancata riqualificazione in servizio dei docenti? A chi fa comodo che i docenti vivano in un sistema che rende inevitabile un babele di pratiche, di didattiche, di metodiche e di mancanza di confronto comune sui temi? Che rende inevitabile l’enorme difficoltà dell’ autoaggiornamento? Secondo me fa più comodo ai governi e agli ingranaggi ministeriali, quelli che riescono a imporre di tutto di più come apprendisti stregoni e neofiti, con tanti alibi dalla loro parte.
Quello della “professione non abbastanza qualificata” o, detta più brutalmente “dei docenti che non sanno insegnare” è il vessilo più facile per imporre e portare avanti con il consenso dell’elettore scelte di razionalizzazione della spesa ma molto, molto dubbie dal punto di vista pedagogico, o quanto meno, non adeguatamente discusse con coloro che poi se ne devono fare interpreti operativi nel sistema scolastico, cioè i docenti. Siamo sicuri che “non sappiano insegnare come facevano una volta” e invece il problema è che “non devono più insegnare come facevano una volta”?
Ad esempio: a che serve un sistema di valutazione nazionale su cui la classe docente non ha avuto modo nè occasione di confrontarsi riguardo alle premesse, ai metodi e alle finalità, cosa completamente nuova e delicatissima per le ricadute sui processi d’insegnamento apprendimento? A che serve tenerli all’oscuro o coltivarne l’ostilità se poi tale sistema lo devono portare avanti e rendere efficace (attivando processi di insegnamento-apprendimento conseguenti) gli stessi docenti che non ne hanno vissuto insieme i momenti di costruzione e la definizione delle finalità? Non mi si dica che è momento di confronto l’individuazione random di qualche docente che diventa “esperto” Invalsi e nemmeno qualche corso che “racconta” cosa è e a cosa serve la prova Invalsi. Beh no. Non funziona così e infatti non sta funzionando. Si rischia di vanificare un percorso importante e serio come quello della valutazione nazionale, si rischia di non predisporre in modo serio ampio e condiviso nuove pratiche o riflessioni che potrebbero nascere dall’analisi dei dati.
Quello che mi auguro per i docenti è intanto un nuovo e più adeguato sistema selettivo: non un miliardo di sistemi, ma uno solo. Rigoroso quanto si voglia, selettivo quanto si voglia, ma trasparente, serio e onesto. Senza fare l’occhiolino a politiche occupazionali e sindacali, ma facendo derivare queste ultime solo ed esclusivamente dai bisogni della Scuola. Il secondo indebolimento (psicologico come sociale) della nostra professione lo incontriamo nel processo selettivo e nell’immissione in ruolo. I sindacati si preoccupino piuttosto di verificare la regolarità dei passaggi, le tutele da attivare e la qualificazione del mestiere.
E infine mi augurio una diversa impostazione dell’organizzazione del lavoro, perchè questo è il terzo indebolimento della nostra professione, la disorganizzazione e la fumosità delle funzioni connesse alla docenza. Oggi ci troviamo in un sistema che rende possibile l’altissima specializzazione di alcuni ma anche la possibile dequalificazione e il lavoro difficile, o poco attento, di altri. Chi osserva da fuori più facilmente fissa l’attenzione sui casi di deprofessionalità e li assurge a sistema. Riorganizzazione dunque, fondata su tre cardini: tempo scuola, la funzione lavoro docente sia ridefinita con l’elenco dei mille “lavori” che svolgiamo dentro la scuola e per la scuola oltre le lezioni frontali: non solo dunque le ore di lezione ma le ore di lavoro funzionali oggi svolte e poco conosciute socialmente (cosa sono: programmazioni, consigli di classe, ricevimenti, funzioni strumentali, organizzazione, scrutini,..), la formazione in servizio che diventi una funzione docente organica e strutturale, non come punizione o premio,ma come parte definita del tempo scuola, e, per favore, si parli di tutela della salute e di salario adeguato al tempo scuola svolto. Le attività funzionali crescono in maniera esponenziale anno dopo anno e nessuno le riconosce, già per effettuare azioni quotidiane come il registro elettronico e le attività burocratico giornaliere, etc..etc..vanno via circa due ore in più al giorno senza che ce ne accorgiamo noi per primi, per non parlar del resto che abbiamo, dai consigli a tutto il resto…questo è lavoro e i primi a non riconoscerlo siamo noi. Collegare le funzioni alla sostenibilità poi: esiste un diritto alla stanchezza, iniziamo a riconoscercelo noi per primi e forse lo riconosceranno gli altri.
Occorrerebbe una riorganizzazione nazionale dei servizi offerti in base a degli standards almeno quantitativi nazionali, aggiornati, obbligatori, un’ uniformazione dell’offerta formativa almeno sulle cose minime: in termini di asili, in termini di tempo scuola (quanto più uniformato da Duino a Lampedusa) e di qualità di strutture: vincolando le regioni e i comuni a standards comuni inderogabili.
La scuola è frammentata ed è nel caos perchè oltre alla carenza di risorse e alla frammentazione formativa dei docenti vive la frammentazione di condizioni strutturali e una disorganizzazione nazionale cronica. Siamo una babele di orari, di qualità di strutture,oltre che di metodologie e di lessico.
Non riusciamo nemmeno a capirci sulle cose elementari in un consiglio di classe, figurarsi da sezione a sezione, da scuola a scuola e da regione a regione e ciascuno di noi si illude di essere il padrone della terra appena entra in classe.
Una rete di idee e di docenti
Dovremmo maturare l’idea che insegnare è sì mestiere individuale in cui vige la libertà d’insegnamento, che ha però valore collettivo,e che la libertà individuale può assumere un valore diverso se c’è una base comune e continua di confronto su temi professionali di cui conosciamo l’esistenza, i nodi e le diverse posizioni, un mestiere libero che deve offrire alla collettività un servizio democraticamente uniforme. Per essere collettivo devi condividere, confrontare e mutare, giorno dopo giorno. Questo lo si fa solo se è un atto previsto e predeterminato, destinando tempo, volontà e soldi al confronto e alla costruzione di una rete comunicativa professionale, che non abbia finalità sindacali ma solo professionali, metodologiche e didattiche.
La costruzione di una rete simile è difficilissima se non la si vuol fare, facilissima se la si vuol fare: pensate che sarebbe facile, per un governo, avere a che fare con una classe di 700 mila insegnanti tutti in rete, tutti informati e tutti attivi dal punto di vista dei temi e dei nodi educativi? Saremmo un nucleo sensibile e importante dal punto di vista politico, al di là della funzione educativa. Pensate che decidere di portare tutti i docenti e gli allievi alle eccellenze e pensare a come farlo sia un atto politico meno importante dell’ avere dieci euro in più in busta paga? Io credo che sarebbe il vero atto politico e che le dieci euro siano ragioneria, non Politica.
Fare i conti con la realtà
Per fare queste cose, fosse anche solo la necessità di ridefinire necessariamente i salari in rapporto a una riqualificazione professionale - non perchè oggi non lo sia, lo è, ma perchè oggi non ci son “le prove”, se riscrivi i termini contrattuali riconoscendo il lavoro effettivamente svolto in termini di orario e di formazione, gli alibi del “lavoro scarso” e dei “privilegi del docente” addotti finora svaniscono -, 400 milioni di euro previsti nel Decreto Scuola, o i fondi destinati alle scuole private, circa 300 milioni di euro, eventualmente recuperati per la scuola statale, sono nulla, servono miliardi: dai 10 ai 15. Sono tanti? Sono troppi? Per noi sono persino pochi.
Fatte alcune delle cose descritte sopra, la mitica “qualità della scuola” su cui tutti si affannano a dir la loro alla domenica mattina, verrebbe di conseguenza, perchè siamo noi docenti con le nostre teste e con le condizioni del nostro lavoro a tenere in piedi la scuola. I 400 milioni delle scuole private sarebbero un tassellino, ma evitiamo di sparare ingenuità tipo che sarebbero la panacea, perchè se lo dovessero fare, di eliminarli, e poi dirci “mò statevi zitti” avremmo ottenuto il piffero. Se io son contro i fondi alle private, lo ripeto, lo sono per principio costituzionale, per motivazione ideale e non per soldi.
E per questo mi ribecco pure l’accusa di “ideologia” da tutti, da destra a sinistra. Ideologia? Cioè? Direi di più: si tratta di un’idea.
Detto ciò, da un sondaggio di un anno fa solo il 2 % dell’elettorato attivo ritiene che la scuola debba avere fondi in più. Dunque ce la cantiamo e ce la suoniamo. Le scelte dei governi sono venute fuori da un circolo vizioso di ricerca di consenso facile e di necessità di far cassa. Su un dato millantato: la dequalità della scuola e degli insegnanti. Millantato perchè discrezionale e avallato dalle zone di vuoto (immissione in servizio non chiara e sempre rigorosa, opzionalità della qualificazione in servizio, ore di lavoro non quantificate….). I rilevamenti dei rendimenti mettono in rapporto i risultati scolastici coi contesti, non con la docenza. Le poche indagini sulla qualità della docenza (in genere straniere) rivelano che i docenti italiani sono generalmente professionali e competenti molto più di tanti altri.
E’ il senso comune quello che non ritiene in questo momento la Scuola un pilastro essenziale perchè, in un paese che ha perso identità comune e individuale, come anche certezza dei processi e dei comportamenti corretti, pensa che per “trovare lavoro non sia essenziale, serve altro, serve la telefonata” e dunque, in fondo, “non ci vuol mica tanto a far il docente…che vuoi che sia? perchè pagarli? e cosa pagare?”. Questo è il sentire comune e, di conseguenza, le forze politiche si regolano con azioni che incontrano il favore certo: per agire sulla scuola basta “punire” il docente e si ottiene subito favore sociale.
Eppure i docenti, che siamo scontenti eccome, siamo quasi un milione, se fossimo compatti questa idea potremmo ribaltarla nel paese e nell’immaginario dei singoli, prima ancora che nelle forze di governo.
Narrando un’altra immagine del docente italiano. Lontana da quella naif del docente che vuol “conservare privilegi e in fondo lavora poco” come anche da quella del “docente eroe missionario” e vicina a quella più rispondente al vero: quella del docente che lavora, con spirito di servizio, che è cosciente della sua professionalità e la difende con le mani e con i denti, pretendendo nero su bianco su alcuni temi senza nessuna remora a partire dalla riqualificazione professionale e dal salario adeguato al mutamento di ruolo e funzione. Passare cioè dalla visione impiegatizia del docente (che hanno voluto in tanti, per pagarla poco, sindacati e politica insieme e parte del nostro mondo) a quella di professionista e intellettuale. E nemmeno mi convince tanto l’immagine del docente bravo da “premiare” accanto a quella del docente pessimo da punire: preferisco immaginarmi dei meccanismi di progressione di carriera lontani dal libro Cuore e più vicini alle organizzazioni serie dei sistemi di lavoro: organizzazione, definizione e divisione del lavoro, diversificazioni funzionali, progressioni di carriera correlate, definizioni di standards quantitativi e qualitativi di riferimento.
Il riconoscimento del merito deve perdere tutto quello che di confuso, “romantico”, o tacitamente “sanzionatorio” ha, per acquistare i caratteri del normale riconoscimento della necessità della differenziazione del lavoro svolto dentro le scuole: si chiama divisione del lavoro e viene normalmente adeguata ai tempi e alle necessità in ogni ambito, sarebbe bene farlo anche nella scuola. Certo, sono sarà duro introdurre in Italia la differenziazione delle funzioni all’interno della scuola. Anche solo a livello di dibattito non ne parla nessuno, nemmeno si conoscono o considerano le figure del middle management scolastico, in genere assolte da docenti che, gradualmente, son meno docenti e più “altro”, figure normali e previste negli altri paesi ma totalmente assenti nel nostro perchè quelle funzioni sono assolte in modo nebuloso dai docenti, ma se si vuol difendere la qualità e la professionalità della scuola Governi, Paese e sindacati devono iniziare a capire che il difetto di professionalizzazione della scuola e dei docenti è innanzitutto nelle loro teste, non nelle nostre.
Forse ce la potremmo fare…a cambiar verso alla scuola..ma… Osservando il vostro collegio docenti, i colleghi e le colleghe, in che percentuale ritenete che sarebbero disposti/e a mutare la loro comoda posizione impiegatizia sempre uguale con quella attiva e mutevole di intellettuale? Attuando cambiamenti profondi proprio nella considerazione di sè? Osservando lo scontento crescente e le condizioni sempre peggiori mi sa che la percentuale stia crescendo.
Io credo che la scuola debba cambiar verso intanto dal basso, dalla consapevolezza condivisa di ciò che si è e uno dei modi passa dalla testa di noi docenti. Non è facile, no, non lo è. Ma è una cosa possibile.
Iniziare con un Theacher’ s Pride ad esempio non sarebbe male. L’ orgoglio di essere insegnanti. Io ce l’ho e voi?