Università, quanto sei fragile
Il rapporto annuale di Almalaurea descrive un sistema ancora in bilico tra rilancio e disgregazione. Le iscrizioni sono tornate a diminuire e gli squilibri territoriali sono sempre più significativi
Luca Scacchi, ricercatore e responsabile Forum docenza universitaria Flc Cgil
Il rapporto annuale sui laureati di Almalaurea restituisce oramai tradizionalmente una fotografia del sistema universitario italiano. Quello del 2022 coglie un momento di passaggio. Al termine (speriamo) della pandemia, ma soprattutto (speriamo) di una lunga stagione che ha rattrappito l’università. La Grande Recessione del 2009-12, infatti, ha portato diversi governi, in controtendenza col resto del mondo, a ridurne le risorse per istruzione e ricerca (in assoluto e in proporzione al PIL): così, in un decennio, si sono ridotti di quasi il 20% corsi di laurea, docenti e personale tecnico amministrativo, perdendo il 40% dei dottorati.
In un paese che aveva già uno dei tassi di laurea più bassi d’Europa (26-27% contro oltre il 40%), gli studenti sono passati da 1,8 milioni nel 2010 a circa 1,65 nel 2015, gli immatricolati da 300 mila nel 2010 a 268mila nel 2013, con una perdita di 4-5 punti nei tassi di passaggio dalle superiori (dati lentamente risaliti, ma che ancora stentano a superare quelli precrisi).
Diritto allo studio: ancora in ritardo
Un effetto determinato anche dall’aumento delle tasse, con un limitato diritto allo studio: Almalaurea segnala come solo un quarto dei laureati abbia ricevuto borse (con il caso tutto italiano, ancora presente, di chi ha i requisiti ma non il sostegno), meno di un terzo servizi di ristorazione (31,4%), un quinto il contributo per i trasporti (19,5%), meno di un decimo buoni per mezzi informatici e libri (9,4%), contributi per l’affitto (7,9%), assistenza sanitaria (7,9%), lavoro part-time (7,5%).
In questo quadro complesso, lo scorso anno si era registrata un crescita delle iscrizioni: oltre 330 mila immatricolati, quasi bissando il picco 2003 (338 mila), quando il 3+2 aveva riportato molti agli studi. Nel 2022, però, gli immatricolati sono tornati a calare: 320 mila, un meno 3%. Un dato preoccupante, perché segnala l’interruzione di una ripresa, sottolineando così la fragilità di questo momento di passaggio. L’università italiana non riesce ad uscire dai suoi limiti, dal suo segno di classe: secondo Almalaurea rimane una prevalenza di provenienza liceale (74,8%), il diploma tecnico riguarda solo il 19,7%, mentre è del tutto marginale quello professionale (2,6%). I laureati con origine sociale elevata sono infatti oltre un quinto dei laureati, più o meno quanto quelli che vengono da famiglie operaie.
Chi più e chi meno
Il calo, però, non è omogeneo. Alcuni atenei aumentano iscritti e laureati, altri li perdono. La mobilità territoriale è infatti in aumento (secondo Almalaurea, negli ultimi dieci anni, dal 24,9% al 29,9%) e con una direzione: dal Mezzogiorno al Nord (il 28,0% dei laureati dal Sud ha scelto atenei di altre aree, rispetto al 13,2% dal Centro e al 3,3% dal Nord). Non è una divergenza che stupisce. In questi dieci anni, infatti, le poche risorse a disposizione sono state distribuite con logiche sempre più competitive: la quota base del Fondo di finanziamento ordinario è calata da oltre l’80% a meno del 50% del suo importo, mentre le altre risorse sono state finalizzate sulla base di criteri premiali, come i Dipartimenti di eccellenza o i Piani straordinari. Alcuni hanno cioè avuto di più, togliendo ad altri (effetto San Matteo), spesso già in territori meno supportivi (fondazioni bancarie e istituzioni locali povere), con contributi studenteschi meno significativi.
Le risorse del Pnrr (oltre 10 miliardi) non intervengono su questi squilibri, sulla cronica assenza di servizi per studenti, i costi dello studio, le sperequazioni nei fondi di funzionamento o nel personale. Si concentrano invece su specifici progetti di ricerca, il trasferimento tecnologico, lo sviluppo di ecosistemi con le imprese. Spesso, per di più, attraverso consorzi e fondazioni private, in costituzione proprio in queste settimane al di fuori del perimetro delle università. Così, le politiche governative hanno in questi anni continuato a favorire una radicalizzazione della competizione, allargando le maglie di un’autonomia differenziata o rivedendo settori disciplinari e compiti dei docenti.
La competizione? Non serve
Questo modello competitivo pensa di supportare il sistema produttivo schiacciando gli atenei su logiche aziendali. È una distorsione della realtà, parallela all’attuale distorsione del mercato del lavoro. L’Italia ha infatti il numero più basso di laureati in Europa e nel contempo un’alta disoccupazione intellettuale. La spiegazione di questa contraddizione è in parte semplice: a mancare non sono i laureati quinquennali (più o meno, come in Europa, poco sopra il 20%), a mancare sono i laureati triennali (6-7%, contro il 20-22%).
Questi laureati, però, non mancano per un’assenza di offerta. Mancano perché i posti di lavoro destinati a loro sono spesso occupati da laureati quinquennali, sottopagati e più flessibili per le aziende. A questa distorsione contribuisce infatti un enorme baco del nostro mercato del lavoro: l’incapacità di assorbire i laureati quinquennali. Una delle ragioni, oltre il nanismo delle imprese, è di origine pubblica: l’assenza di uno e due milioni di suoi dipendenti. Se ci fossero quei posti di lavoro, assorbirebbero laureati, favorirebbero lo sviluppo di uno spazio per titoli di studio intermedi, ridurrebbero i Neet che oggi hanno scarse possibilità di occupazione.
Serve allora una svolta di sistema, oltre l’emergenza, sul lato delle risorse, ma anche della difesa del sistema universitario nazionale, uscendo dalla logica competitiva del new public management e della logica d’impresa. Se letti in controluce, di questo ci parlano i dati di Almalaurea.