Valutazione e premialità. Ciò di cui “nessuno discute”
Nella discussione sulla ripartizione della “quota premiale” si dà per scontato ed indiscutibile il fatto che la distribuzione debba premiare le migliori università e di conseguenza “punire” quelle peggiori
Francesco Coniglione
Nella discussione sulla ripartizione della “quota premiale” si dà per scontato ed indiscutibile il fatto che la distribuzione debba premiare le migliori università e di conseguenza “punire” quelle peggiori. Ma siamo sicuri che la valutazione debba servire a questo scopo? È questo il modo migliore per elevare il tasso di qualità del sistema universitario? È appunto questo tacito assunto a doversi mettere in discussione se si vuole un sistema universitario equilibrato, che non degeneri verso un modello dipolare, con università di serie A e B, il quale rispecchi e consolidi le arretratezze territoriali ed economiche in cui esse sono situate. È possibile un altro modo di servirsi della valutazione: piuttosto di intenderla come un strumento che favorisce il ricco arricchendolo sempre più e penalizza il povero aggravandone l’indigenza, dovrebbe essere alla base di policies universitarie che mettano in atto misure idonee a superare le situazioni di difficoltà e possano portare al riequilibro del sistema universitario in tutto il territorio nazionale.
Un recentissimo articolo di Riccardo Realfonzo (pubblicato sul Sole24Ore del 10 u.s. – vedi link) mette in luce come la quota di premialità del FFO (che per il 2015 è giunta al 20%), così come sinora calcolata, abbia di fatto sfavorito le università meridionali a vantaggio di quelle del centro-nord. E giustamente stigmatizza la lacuna di tale sistema di ripartizione in quanto non tiene conto del differente contesto e dei differenti fattori socioeconomici nei quali le diverse università sono inserite. Se ciò venisse fatto – sostiene l’Autore – e venisse ad es. utilizzato un indice della probabilità di trovare impiego dei laureati in rapporto al contesto, allora ai primissimi posti si troverebbero università come quelle di Catania e di Napoli Federico II, che invece con l’attuale calcolo sono state tra le più penalizzate. Quando ad es. si utilizza un indice quale quello della mobilità degli studenti – aggiungo io – è palmare per ogni persona di buon senso rendersi conto che l’università di Catania non può competere con quella di Torino o Milano, anche a parità di qualità dell’offerta: chi dovrebbe attrarre Catania, gli studenti della Libia o della Tunisia?
Eppure – pur in questa condivisibile analisi – un aspetto lascia perplesso, in quanto permette di individuare il punto cieco sul quale si arena l’attuale discussione sulla valutazione e sulla premialità (che nella versione italiana si traduce in “assenza di punizione”). È quando l’Autore afferma che «Nessuno discute che la distribuzione delle risorse debba premiare gli atenei migliori», per concentrarsi invece solo sulla capacità del sistema attuale di valutare adeguatamente il merito degli atenei. Ma appunto ciò che nessuno discute è proprio ciò che deve essere messo in discussione.
Tale presupposto ammesso come indiscutibile si basa – a mio avviso – sulla erronea e surrettizia convinzione che gli atenei “puniti” con minori finanziamenti siano stimolati a fare sforzi per migliorare le proprie prestazioni in modo da risalire la china. Una convinzione che deriva a sua volta dall’idea che sia possibile inserire elementi di “competizione” nel sistema universitario attraverso il meccanismo della valutazione, che si assumerebbe il compito in economia assegnato al “mercato”. In tale logica “mercatista”, in cui la ricerca scientifica si misura in “prodotti”, gli studenti sono “clienti” e i docenti non offrono cultura e crescita intellettuale, ma “competenze” e servizi, si ritiene che il sistema “premio-punitivo” assolva la funzione di risvegliare i “pigri” e di stimolarli a competere, migliorando le proprie performance.
Ma tale idea è del tutto errata, perché porterà di fatto a ulteriormente indebolire le università più deboli, sia per proprie caratteristiche storiche intrinseche, sia per l’appartenenza ad un territorio strutturalmente più povero e bisognoso di sostegno. È la pratica realizzazione a livello universitario dell’effetto San Matteo: «Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha» (Matteo, 25, 29). Una università che vede decrescere il proprio FFO e che è situata in un territorio dove non esistono né soggetti economici in grado o interessati a sostenere la ricerca scientifica o finanziarne le attività, né una popolazione che possa pagare tasse più elevate (ammesso che si voglia seguire tale via), sarà sempre più portata a diminuire i propri investimenti nella ricerca e nella didattica (diminuzione di dottorati, borse di studio, assunzione di giovani ecc.). Né sarà in grado di investire per arruolare o far rientrare ricercatori “eccellenti”, sicché le poche risorse residue finirebbero inevitabilmente per essere distribuite tra i gruppi accademici e i settori disciplinari già esistenti.
Sarebbe invece necessario fare una politica del tutto diversa, che sia tra l’altro in coerenza col dettato costituzionale. Infatti nell’art. 3 si afferma che «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.». Non si vede come ciò possa accadere quando si permette e sanziona per disposizione legislativa l’esistenza di università assai diverse nella qualità e nella dotazione finanziaria, con ciò di fatto sfavorendo interi settori della popolazione italiana. Per non parlare dell’art 34, nel quale si assicura ai “capaci e meritevoli” (non ai soli “eccellenti”) privi di mezzi il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, grazie a borse di studio, assegni alla famiglie e altre provvidenze.
Bisogna dunque mettere in discussione ciò che nessuno discute e concepire una politica opposta a quella sinora messa in atto, col distinguere innanzi tutto la valutazione dalla politica universitaria vera e propria. La valutazione deve avere la funzione di diagnosticare (se fatta bene, e non come sinora fatto) i punti critici e di debolezza del sistema universitario, al fine di dare indicazioni per “policies” in grado di supportare le realtà in difficoltà – università per università, dipartimento per dipartimento – e permettere loro di avviare una pratica virtuosa che possa portare ad un aumento del loro tasso di qualità ed efficienza. Non quindi una punizione con minori investimenti, ma più investimenti, mirati e sapientemente concertati. Per dirla all’ingrosso, se si constata che un certo dipartimento ha un tasso di clientelismo e localismo assai elevato (la solita “pietra dello scandalo”, sempre sulle pagine dei giornali), è inutile punire l’esistente, in un’ottica moralistica, attraverso la decurtazione delle risorse; bisognerebbe piuttosto finanziare, ad es., solo assunzioni nella direzione della acquisizione di personale di alta qualità (studiosi residenti all’estero, che abbiano certi requisiti, che siano selezionati in modi particolari, o comunque provenienti da altre realtà universitarie e così via); o incoraggiare l’internazionalizzazione, o migliorare i laboratori e via dicendo. Insomma, piuttosto che togliere quote di FFO all’intera università “punita”, che non ha altro effetto se non canalizzare le poche risorse residue verso i gruppi più forti (non quelli più eccellenti), oltre che a creare su scala nazionale un modello dipolare, sarebbe necessaria una “policy” attenta alle specificità, flessibile nelle sue soluzioni, e mirata allo sviluppo piuttosto che alla depressione. Insomma una “politica dell’università”, analogamente a come sarebbero anche necessarie una “politica industriale” (che manca), una “politica dell’ambiente” (che manca) e una “politica della salute” (che manca), ecc. In questa luce l’Anvur dovrebbe ridefinire radicalmente il proprio ruolo nella direzione di un organismo strumentale di accertamento delle situazioni di difficoltà delle varie sedi universitarie, in modo da fornire le informazioni necessarie affinché possa essere decisa – da un altro organismo o ad altro livello – la strategia migliore da seguire per superarle, di concerto con le singole università interessate.
Ma per fare tutto ciò è necessario muoversi in un’ottica di sviluppo complessivo del livello di istruzione, di maggiore qualificazione della ricerca nel suo complesso, di perequazione delle conoscenze, della formazione e delle possibilità. Sarebbe la vera politica meritocratica, la quale non può ridursi a premiare chi non ne ha affatto bisogno, ma nel predisporre i percorsi che possono dare, a chi è effettivamente capace, la possibilità di “farcela”. In fondo la situazione dell’università italiana è analoga a quella del sistema sanitario che nel 2009 è stato giudicato dall’OMS il secondo migliore al mondo, non certo per i suoi “hub di eccellenza” (che pur esistono), ma per la qualità media di assistenza assicurata sul complesso del territorio e della popolazione nazionale. Lo stesso di potrebbe dire per le università italiane: non esistono singoli atenei che sono comparabili a quelli stranieri, che stanno tra i primi 100 al mondo (ma ci sarebbe poi molto da dire su tali classifiche, come si è scritto in numerosi articoli su Roars), eppure nel suo complesso il sistema universitario non si posiziona male: ha una buona qualità media assicurata sull’intero territorio nazionale (vedi link).
Il modo attuale in cui si è concepita la valutazione e la premialità corre il rischio di squilibrare l’intero sistema: la conseguenza sarà non solo quella di non aumentare la qualità media delle università italiane, ma piuttosto di approfondire la loro distanza reciproca sino a giungere a un sistema dipolare con università di serie A e B, con studenti di serie A e B, con regioni di serie A e B e infine con livelli di servizi (avvocati, medici ecc.) di serie A e B, con relativi flussi migratori dalle situazioni B e quelle A (di studenti, pazienti, utenti ecc.), per chi se lo potrà permettere; gli altri si arrangino. È quanto si comincia già a intravvedere con le università meridionali, sempre più in crisi, con studenti (quelli che se lo possono permettere) in fuga verso gli atenei del Nord o addirittura all’estero, in un territorio che vede crescere il proprio sottosviluppo economico, culturale e civile. Insomma un bel passo indietro rispetto a una ipotesi egualitaria e distributiva, in barba a Costituzione, Unione Europea e ai vari progetti di Lisbona ed Europa 2020, e così via: in questo caso l’Europa non conta nulla. Ma evidentemente v’è qualcuno a cui tale prospettiva piace.
Insomma occorrerebbe un ripensamento complessivo del modo in cui la valutazione è stata sinora pensata e attuata e ridiscutere ciò che nessuno discute. Purtroppo è proprio questa volontà di ripensamento e ridiscussione che mi sembra assente. Che sia la “buona università” un’occasione per far ciò? Ci sia lecito sognare.