Vivalascuola: Dossier valutazione
Nei giorni 9, 10, 11, 16 maggio, con posticipi nei giorni 16, 17, 18 maggio, si svolgeranno le prove Invalsi. La discussione sulle prove e sul tema della valutazione è sempre accesa.
+Vivalascuola l’anno scorso ha presentato due puntate con interventi pro e contro le prove: di Paolo Fasce e Giovanna Lo Presti, di Roberto Ricci e Marina Boscaino. Quest’anno presentiamo interventi dell’ispettore scolastico Franco De Anna che afferma la necessità di una attività di valutazione, mentre l’insegnante e sindacalista Giovanna Lo Presti motiva il suo no a una valutazione fatta nelle condizioni attuali della scuola italiana, il docente di pedagogia sperimentale all’università di Roma Tre Bruno Losito esprime alcuni rilievi critici sui test Invalsi, l’insegnante e giornalista Marina Boscaino evidenzia novità e limiti del progetto VAleS. Pensiamo di fare cosa utile proponendo altri materiali che illustrano la complessità del problema e come non possa essere risolta con interventi di corto respiro.
Della valutazione
di Franco De Anna
Valutazione è una parola nominata ormai in tutte le occasioni in cui si parla di scuola: convegni, seminari, circolari ministeriali, esternazioni politiche. E l’eco mediatica provvede a moltiplicare sia le ripetizioni che l’enfasi.
Come accade a tutte le buzz words il cui ronzio pervade ogni discussione e confronto, anche per il termine “valutazione” si misura concretamente il rischio che la chiarezza e univocità semantica deperiscano con velocità proporzionale alla pervasività delle ripetizioni.
Vorrei tentare di recuperare qualche sensata definizione e sensata condivisione dei significati da attribuire al termine – e nella sua applicazione alla scuola ovviamente – attraverso alcune affermazioni molto semplici, per qualche verso da apparire scontate, ma che possono costituire la “piattaforma” di significati condivisi capace di dare anche alle posizioni ed opinioni diverse la base per una confrontabilità non inquinata da equivoci e fraintendimenti.
1. Valutare è attività ineliminabile dell’agire umano. La specie ha limitatissimo corredo di “schemi fissi di azione” (FAP) ereditati o congeniti. Il resto del comportamento umano è permanente adattamento costruito sulla base di valutazione “discriminata” e di valori appresi.
Se “non si può non valutare” allora tutti valutiamo e siamo valutati. Ci valutano i nostri padri, i nostri insegnanti, i nostri figli, i nostri coniugi e i nostri amanti. Raramente essi usano parametri e strumenti oggettivi. Ma dobbiamo riconoscere che molto spesso “ci azzeccano”.
Naturalmente se la valutazione è attività che si sviluppa in sistemi organizzati, ha bisogno di strumenti e parametri, se non oggettivi, almeno dichiarati (e si spera condivisi). Ma ciò non inficia, anzi, la verità dell’affermazione.
2. La valutazione è sempre un processo che mette in dialettica due fasi: la misurazione e l’elaborazione del giudizio.
La prima – la misura – non sempre è possibile (non tutto è misurabile in senso stretto). Ma quando lo è dovrebbe essere realizzata con strumenti appropriati e affidabili. Ma, anche con la migliore strumentazione, la misurazione non sostituisce “l’elaborazione del giudizio”, non lo predetermina in automatico.
L’elaborazione del giudizio è attività impegnativa e spesso “inquietante” sotto il profilo dell’impegno intellettuale e di quello psicologico. In particolare quando la valutazione elabori il giudizio sull’attività di persone, o quando sia premessa per “decisioni” importanti.
L’elaborazione del giudizio sta al vertice di una “sequenza inferenziale” attraverso la quale si concatenano dati (le misure per esempio), li si trasformano in “informazioni”, li si confronta con “teorie interpretative”, li si trasforma in “diagnosi” e, se del caso, in “prognosi”.
Poiché ha tale complessità, spesso si cede alla tentazione di “delegare” tale impegno alla pura misurazione; e perciò si tende a “complessificare” la strumentazione, rovesciando su di essa la complessità della elaborazione inferenziale. Si cerca cioè la procedura “esimente dal giudizio” e dalla sua responsabilità e che restituisca in automatico il risultato.
Ma: meglio strumenti semplici e pensieri complessi. Il reciproco (strumenti molto complessi e pensieri rudimentali) costituisce la miseria di tanti “sistemi di valutazione” (e la cattiva coscienza nascosta di tanti cattivi valutatori).
3. Per tutti questi motivi, la valutazione è attività che anima fantasmi: i fantasmi della paura, della colpa, della fuga. Li conosciamo fin da piccoli e nella vita ci siamo spesso adattati a non badarvi, con “formazioni di compromesso” (direbbe il padre della psicanalisi) personalizzate (ognuno ha la sua storia ed il suo percorso verso l’adultità…).
Sono questi fantasmi che spesso riemergono sotto mentite spoglie in molto di quel dibattito sulla valutazione cui si accennava all’inizio.
Il modo peggiore per trattare i fantasmi è di lasciarli agire nell’ombra. Per disattivarne i malefici bisogna portarli alla luce, riconoscerli e dare loro la parola per ritrovarne “l’innocenza”.
La paura è sentimento utile, e così la capacità di riflettere sui propri errori e rielaborare la colpa, e così la stessa “via di fuga” è fondamentale accorgimento umano di autodifesa e preservazione.
Se lasciamo tutto ciò nel buio se ne impadroniscono i fantasmi… Portarli alla luce, riconoscerli, trovare le parole “per dirli”, sono condizioni con le quali ogni sensato sistema di valutazione dovrebbe preliminarmente fare i conti e prendersi cura.
(Che tali fantasmi siano in opera anche nel nostro dibattito, mi sembra difficile negare: basti pensare alla “deriva sadica” con la quale spesso si propone come necessario valutare gli insegnanti; “per sistemare le cose”, ma anche i tanti “non si può valutare l’insegnamento” oppure il “ci vuole ben altro…” con cui si risponde a tale deriva punitiva credendo così di contrastarla…).
In realtà non c’è sistema di valutazione che funzioni (o che ci si provi…) che non affronti preliminarmente il problema di costruire il consenso, anche conflittuale. Altrimenti, senza consenso-conflitto rimane sempre l’opzione dell’exit… La valutazione “imposta” si “conformizza” tra cosmesi e opportunismo.
4. La parola “valutazione” nella sua plurale semantica si applica, spesso senza le opportune differenziazioni “determinate”, ad una pluralità di “oggetti”.
Sinteticamente, a livello di “sistema” (che sia una istituzione o che sia una impresa…) si valutano sostanzialmente tre “cose”: l’organizzazione (nel nostro caso la “scuola autonoma”); le “persone nell’organizzazione” (non “le persone”, ma le “persone nell’organizzazione”, dunque ruoli professionali, cultura organizzativa, relazioni, comunicazione; i prodotti/processi/esiti (nel nostro caso l’apprendimento).
Come è evidente per ciascun oggetto di valutazione sono specifici gli strumenti, i protocolli, i “come e perché” del valutare.
E’ però ben vero che tale specificità rivela ampi territori di confine e sovrapposizione, vicinanza di strumentazioni, approcci, competenze relative al valutare. Esplicitare tali confini e vicinanze ci porterebbe lontano per questa comunicazione.
Basti dire che il vero terreno unificante dei diversi strumenti, approcci, protocolli, finalità, è una cultura “valutativa diffusa”, che si misuri con tutte le osservazioni prima elencate. E a me pare questo il vero punto debole che emerge dal dibattito sulla valutazione che si sviluppa in questi anni nella nostra scuola.
Tenere collegati e coerenti i diversi elementi della “matrice” della valutazione (i “chi, cosa, perché”) entro una cornice comune di senso è invece una delle condizioni per declinare “l’accettabilità sociale” della valutazione. La condizione per costruire un “sistema”.
A me pare che ciò manchi sia sul fronte dei “decisori” (politici e amministrativi) sia sul fronte degli “operatori” del sistema (dai docenti ai Dirigenti Scolastici. Dei dirigenti amministrativi a volte il “tacere è bello”).
5. Il processo di valutazione declina sempre elementi di “asimmetria” tra valutato e valutatore. Ovviamente, in relazione ai diversi “protocolli”: si va dall’autovalutazione, che identifica soggetto e oggetto della valutazione (ma non vi è protocollo sensato di autovalutazione che non preveda un “occhio” esterno, sia pure in veste di “amico critico”) all’eterovalutazione che declina la “distanza” tra oggetto e soggetto.
Inutile discettare su quale sia il protocollo “migliore”. Dipende dai “perché si valuta”. Come ovvio la finalità del “miglioramento” può giovarsi appieno della vicinanza tra valutato e valutatore. La finalità “premiale” (ineliminabile dalla valutazione, almeno a mio parere) richiede distanza.
Ma nel continuum tra oggetto e soggetto, tra valutato e valutatore si declina una asimmetria che è ineliminabile. E, come tutte le asimmetrie nelle relazioni, è fonte di potenziale conflitto e di “dolore”. Per questo insisto nella necessità di “cura” e della continua rielaborazione sia della “deriva sadica” (la sua altra faccia è la sindrome pigmalionica: sei bravo perché sei simile a me…) sia delle derive collusive e opportunistiche sempre presenti nel valutare.
Suggerisco sommessamente di considerare quanto queste osservazioni siano applicabili per esempio anche ai soli processi valutativi che sono in opera costantemente nella scuola e che riguardano finora (paradosso) solo uno dei suoi protagonisti: gli studenti (e l’invito è rivolto in particolare alla secondaria superiore…).
D’altra parte “valutazione” significa “assegnare valore”. Se non si parte da un quadro di valori determinati, sensatamente condivisi da tutti i protagonisti di un “sistema”, la valutazione è processo ininfluente, a volte molesto e inconsistente nei suoi effetti.
In questo senso la “cultura valutativa” dovrebbe essere un elemento fondante del “modello professionale” nel quale si riconosce un ceto professionale (e un ruolo da “intellettuali”, in senso gramsciano) come quello costituito dai docenti. E non c’è “unità di sistema” dell’istruzione che possa fondarsi altrimenti che su un modello professionale socializzato e riconosciuto. L’uniformità amministrativa non garantisce alcuna unità reale.
6. Un aforisma molto usato in letteratura relativa a valutazione nelle imprese recita pressappoco che “non vi è impresa evoluta che non riconosca la necessità di avere un buon sistema di valutazione, ma non vi è impresa che non sia critica rispetto a quello che adotta”.
Nella sua sinteticità tale affermazione indica che la valutazione è sempre “campo di ricerca”. Nessun protocollo, nessuno strumento sono da considerare esaustivi e validi per sempre. Naturalmente a livello di sistemi occorre consolidare e provare. Ma la ricerca non è mai finita e si esercita “sul campo” non nelle elucubrazioni dei “decisori”.
L’osservazione è diretta sia a chi pensa a “cortocircuiti” impropri (per esempio utilizzare le rilevazioni standard sugli apprendimenti come strumenti impropri di valutazione del personale o delle organizzazioni), sia a chi se ne difende lamentando l’imperfezione degli strumenti o le suggestioni di un “benaltrismo” che utilizza l’esistenza di altri problemi della scuola per rinviare la “prova sul campo”.
Se cerchiamo strumenti “perfetti” non cominceremo mai. Se comprendiamo la dimensione permanente di ricerca forse possiamo indirizzare e applicare la nostra strumentazione critica a migliorarli costantemente.
7. Quella valutativa è una parte consistente della “ricerca educativa”. Non la ricerca pedagogica che riguarda i processi di apprendimento e insegnamento, ma la “ricerca educativa” che ha come oggetto il “sistema educativo”. Cioè un sottosistema sociale e istituzionale di grandi dimensioni e che riguarda potenzialmente tutti i cittadini.
Possiamo, fuor di polemica, guardare allo stato della ricerca educativa del nostro Paese, alla sua organizzazione, ai suoi istituti e presidii, per comprendere quanto vi sarebbe da fare.
Sono più di dieci anni che quell’abbozzo di “sistema della ricerca educativa” che si tentò di costruire negli anni ’70 (CEDE, oggi INVALSI, Biblioteca di Documentazione Pedagogica oggi ANSAS.INDIRE, gli Istituti Regionali, oggi scomparsi), preso atto dei sui difetti storici, e preso atto della novità istituzionale ed organizzativa costituita dall’autonomia scolastica, non è stato migliorato o riformato, ma semplicemente è stato tenuto in “fase di transizione”. La sta superando, faticosamente, e con forti limiti di consapevolezza politico amministrativa l’INVALSI.
La storia dei sistemi scolastici di molti Paesi cui siamo soliti guardare come a “modelli avanzati” ci racconta che costruire un sistema di valutazione, quali ne siano le scelte, le ispirazioni, la strumentazione specifica (spesso molto diverse tra loro) è impresa più che decennale.
Facciamoci coraggio.
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No, no e poi ancora no
di Giovanna Lo Presti
Questo non è un intervento di analisi del progetto VALeS; è piuttosto un intervento a difesa del diritto di dire “no”, quando questo rifiuto sia talmente motivato da rendere inutile persino entrare nello specifico dell’oggetto rifiutato.
Giusto per non essere tacciati di pregiudizio (eppure quanti pregiudizi, quanti paralogismi nasconde la “cultura della valutazione”!) dichiariamo comunque di aver letto il progetto VALeS e, ahinoi!, di averlo meditato in tutto i suoi aspetti. Ad iniziare dalla denominazione, che aggiunge un altro elemento al colorito repertorio degli acronimi “scolastici”: ce n’è per tutti i gusti, da quelli che sembrano prodotti dalla disgrafia (Dsga), a quelli onomatopeici (POF! – proprio come la metaforica bolla di sapone cui allude), a quelli che richiedono la contestualizzazione per non confonderli con l’omonimo, ancorché già defunto, partito politico (DS), a quelli che sanno decifrare solo gli interessati (AFAM, TFA etc.) sino al nostro VALeS (di seguito prosaicamente Vales, ché non merita tanto alternarsi di Maiuscole e Minuscole), che richiama il latinorum ed ha un’aria vagamente benaugurale. Valeo, si vales; peccato che qui si stia sempre peggio.
La scuola italiana ha clamorosamente mancato il passaggio da una scuola per pochi alla scuola di massa. L’unica, vera riforma scolastica dell’Italia repubblicana, resta quella che sostituì all’avviamento professionale e alla scuola media la media unica, eguale per tutti i ragazzini; fra pochi mesi saranno cinquant’anni da quella riforma.
In seguito, soltanto la scriteriata sfacciataggine della nostra classe di governo ha ripetutamente definito “riforma” progetti semi-abbozzati, privi di valore culturale, concepiti dallo strabismo di chi guarda con un occhio a una qualche (discutibile) teoria didattico-pedagogica e con l’altro al portafoglio. Tant’è che la soluzione è arrivata soltanto con Gelmini, che ha risolto lo strabismo puntando lo sguardo di Medusa sui tagli al bilancio dell’istruzione e realizzandoli in maniera “epocale”.
Come un ritornello logoro, ci sentiamo ripetere che, in confronto con gli altri Paesi europei a noi paragonabili, l’Italia ha il più basso rapporto tra Pil e spesa per l’istruzione; eppure l’Europa ci ordina di tagliare ancora la spesa. Per il comune mortale trattasi di contraddizione insanabile, per i sacerdoti dell’europeismo dei mercati trattasi di dogma.
Come un mantra si ripete da decenni che gli stipendi degli insegnanti italiani sono inaccettabilmente bassi; eppure i lavoratori della scuola si son visti bloccare contratto e scatti d’anzianità con l’avvento del governo Berlusconi. Abbiamo però avuto bisogno del governo dei “tecnici” per rendere esplosivo un altro problema che ci pone in cima alle classifiche negative dell’Europa: i nostri insegnanti, che già sono i più vecchi in assoluto, si vedono spostare in avanti di un decennio la possibilità di andare in pensione. E quando andranno in pensione avranno una pensione decurtata in modo significativo.
Sottopagati, bistrattati (ci siamo già dimenticati dell’eccellente campagna di Brunetta contro i “fannulloni” del pubblico impiego? Ci siamo già dimenticati del fatto che Brunetta, in una sua simpatica esternazione, disse che, per un lavoro part time gli insegnanti erano persino troppo pagati?) i docenti italiani dovrebbero, secondo alcuni, accogliere con un sorriso Invalsi e Vales e abbracciare la religione della valutazione.
Ho l’impressione che quanto più si sia distanti dalla scuola vera, tanto più si consideri necessario il sistema di valutazione. Che è, e resta, almeno per ora, cosa da docenti universitari, da burocrati ministeriali, da pedagoghi – insomma destinato a quelli che, parafrasando Don Milani, non hanno bisogno di conoscere la scuola vera, poiché la scuola la conoscono a memoria (anche se soltanto per sentito dire).
Per gli altri, che passano le loro giornate in aule spesso fatiscenti, sempre più affollate, in cui circola sempre più percepibile il disagio sociale, Invalsi e progetti VSQ o Vales hanno la valenza provocatoria di una stupidaggine calata inopinatamente in un discorso serio.
Diano, i nostri governanti, scuole dignitose per chi ci lavora e per chi ci studia. Siano decorosi, sicuri, ben attrezzati gli edifici scolastici, sia rivalutato adeguatamente il compenso degli insegnanti e dei lavoratori della scuola, si provveda, attraverso interventi plurimi, a ridare dignità culturale al lavoro docente, si mandino in pensione (e non con un assegno da fame) coloro che hanno lavorato trentacinque anni, si risolva, di conseguenza, la piaga del precariato, si dia di più alle scuole che patiscono il riflesso del disagio socio-economico: a queste condizioni sarà poi possibile parlare di valutazione.
Alle condizioni attuali, accettare la valutazione è un atto di inutile piaggeria verso un potere ottuso e incoerente. Dopo la valutazione, quali saranno gli interventi correttivi messi in campo dal Governo? Che io sappia, almeno sinora, nessuno. A meno che non si voglia far gli spiritosi e ritenere “correttivi” quelli che il progetto Vales assicura alle trecento scuole (giovani e forti?) che prendono parte al progetto.
Spiace che il progetto Vales abbia ricevuto quel consenso che era stato negato all’analogo progetto di Gelmini e che ben 1053 scuole si siano candidate. A suo tempo, Gelmini aveva ricevuto un’alzata di scudi da parte dei Collegi docenti, giustamente indignati per la natura insieme approssimativa e scioccamente meritocratica del progetto.
Se Vales è passato il perché è da rintracciare nel conformismo di tanti docenti italiani (chi scrive non è per la difesa acritica di una categoria che, pur importante e molto maltrattata, ha responsabilità di non poco conto nel degrado attuale della scuola). D’altra parte, i docenti sono cittadini e, come a molti cittadini è bastato, per tirare un sospiro di sollievo, sostituire al berlusconiano governo dell’avanspettacolo il governo in baciapile e in doppiopetto di Monti, così per i suddetti docenti è bastata attenuare l’arroganza gelminiana e non esibire troppo la patacca della meritocrazia per spingerli ad accettare il progetto Vales.
Le trecento scuole fortunate che potranno attuarlo (e le altre volenterose 853 si rassegneranno forse al fatto di non aver vinto alla lotteria) si vedranno attribuire dopo tre anni dai diecimila ai ventimila euro. Ipotizzando, ma è soltanto un’ipotesi, di dividere la cifra tra cento lavoratori, l’equivalente di un obolo tra i trenta e i sessanta euro all’anno.
Meglio sarebbe usare i fondi destinati ad Invalsi, SVQ e Vales per restituire alla collettività qualche posto di sostegno, per garantire un po’ più di risorse alla defraudata scuola italiana. Chi ci governa somiglia abbastanza da vicino ai medici che ebbero in cura Raffaello Sanzio: egli estenuato, se dobbiamo dar retta al Vasari, da eccessi amorosi, venne sollecitamente curato con continui salassi, che lo portarono presto alla tomba.
Guardiamoci dunque dai salassatori, anche quando si presentano nella meno temibile veste di valutatori.
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Le scuole e le rilevazioni Invalsi
Alcune riflessioni, per un rapporto più costruttivo
di Bruno Losito
Come negli ultimi anni, l’Invalsi ha avviato le rilevazioni previste dal Servizio Nazionale di Valutazione (SNV). E come negli ultimi anni si è riaperto il dibattito sugli obiettivi di queste rilevazioni, sulle loro caratteristiche, sull’uso possibile dei loro risultati.
Vorrei provare a offrire alcuni elementi di riflessione per questa discussione. A partire dall’esplicitazione del mio punto di vista: credo che le rilevazioni esterne sul rendimento scolastico degli studenti – ai vari livelli del nostro sistema di istruzione – siano non soltanto utili, ma necessarie. Credo anche che, negli ultimi anni, l’Invalsi abbia svolto un lavoro cui vanno riconosciuti molti meriti: la realizzazione di rilevazioni molto ampie con mezzi e risorse che definire limitate è un eufemismo; il costante miglioramento delle prove utilizzate in queste rilevazioni; la trasparenza sui risultati delle rilevazioni e sulle caratteristiche delle prove utilizzate; la correttezza nel rapporto fiduciario con le scuole che hanno partecipato alle rilevazioni.
Credo sia importante sottolineare questi aspetti, soprattutto a fronte di una serie di critiche spesso poco giustificate: la “ignobile” qualità delle prove Invalsi; il rischio di “schedatura” delle scuole e degli studenti che dalle rilevazioni potrebbe derivare; la non affidabilità delle procedure di somministrazione e, conseguentemente, dei risultati ottenuti.
Detto questo, credo sia importante che si possa discutere di alcune caratteristiche delle rilevazioni, dell’uso dei loro risultati, della qualità delle prove e delle modalità di elaborazione dei dati e di presentazione dei risultati. Senza alcuna pretesa di esaustività. Molto più approfondita potrebbe essere la discussione su ciascun aspetto. Molti altri aspetti potrebbero essere affrontati.
Gli obiettivi delle rilevazioni
Andrebbero sciolti, a mio parere, alcuni elementi di ambiguità relativi agli obiettivi delle rilevazioni. Nell’ultima Direttiva triennale del Miur in cui tali obiettivi sono definiti – quella relativa al triennio 2008-2011 – la rilevazione “degli apprendimenti” degli studenti è presentata in modo esplicito in funzione della valutazione delle scuole e della costruzione di misure di “valore aggiunto”. Questo presuppone che i risultati delle rilevazioni siano pubblici, quanto meno a chi dovrebbe essere responsabile della valutazione delle scuole (il Miur?), che le misure costruite siano comparabili da un anno all’altro, che l’attendibilità dei dati raccolti sia tale per tutte le scuole in cui le prove sono somministrate. In realtà non è così.
L’Invalsi ha sempre dichiarato di avere garantito la riservatezza dei risultati, comunicando a ciascuna scuola i propri risultati (confrontati, “posizionati”, rispetto a quelli delle altre scuole). Fino ad oggi non risulta che il Miur o altri soggetti abbiano avuto accesso ai dati delle singole scuole.
I rapporti che l’Invalsi ha inviato alle scuole sono stati presentati (e da molte scuole interpretati) come strumenti per riflettere sul proprio intervento didattico, in funzione di un processo di miglioramento che da tale riflessione dovrebbe scaturire.
Inoltre, i risultati delle rilevazioni sono sempre stati presentati dall’Invalsi nei rapporti nazionali secondo una logica di valutazione di sistema, non secondo quella della valutazione delle singole scuole. E questo si è verificato anche per la terza secondaria di primo grado, dove pure le prove sono somministrate nell’ambito della prova di esame finale.
Va anche detto – e questo è un limite non di poco conto che deve essere sottolineato – che i risultati delle rilevazioni non sono stati mai contestualizzati in riferimento alle diverse caratteristiche socio-culturali degli studenti e delle scuole, né in riferimento ai diversi contesti scolastici (territorio in cui le scuole sono inserite, risorse disponibili, processi di insegnamento-apprendimento, stili di direzione, e così via). Né d’altronde questo sarebbe stato possibile, visto che la somministrazione delle prove cognitive (di “italiano” e di matematica) non è accompagnata dalla raccolta di informazioni sulle variabili di contesto, come invece avviene in tutte le indagini internazionali cui il nostro paese partecipa (Ocse Pisa, indagini Iea).
Personalmente credo che l’Invalsi abbia, da questo punto di vista, agito correttamente. Va sciolta, però, l’ambiguità contenuta nella Direttiva triennale (ad oggi non è ancora pubblica quella per il triennio 2012-2014): va detto con chiarezza a quale livello si pongano le rilevazioni – sistema, scuola, singoli studenti (non si dimentichi che negli esami di Stato al termine della scuola secondaria di primo grado i risultati delle prove Invalsi concorrono alla valutazione individuale degli studenti nella prova d’esame). Chiarire questo aspetto è importante, anche perché comporta conseguenze di rilievo sia per il tipo di prove utilizzate, sia per i disegni delle rilevazioni, sia per l’elaborazione dei dati e per la presentazione dei risultati.
Aggiungo che, a mio avviso, sarebbe anche opportuno parlare di rilevazione del “rendimento scolastico” degli studenti ai diversi livelli in cui vengono effettuate le rilevazioni, e non di rilevazione degli “apprendimenti”. Rilevare – e misurare – gli apprendimenti implica una serie di attenzioni e di caratteristiche delle rilevazioni che le prove Invalsi ad oggi non sono in grado di garantire.
La qualità delle prove
Credo sarebbe opportuno cercare di chiarire che cosa le prove Invalsi consentono effettivamente di rilevare e che cosa esse non rilevano. Nei documenti e nei materiali anche informali dell’Istituto è presente una oscillazione continua tra l’indicazione dell’ “oggetto” delle prove nelle conoscenze, nelle abilità, nelle competenze. Credo che vada riconosciuto senza troppe ambiguità che le prove Invalsi ad oggi non consentono di rilevare assolutamente competenze, in modo particolare le prove di italiano. Basterebbe un confronto con le prove utilizzate dalle indagini internazionali come PISA per avere una idea precisa di questo aspetto. Anche in queste prove, abbiamo soltanto delle “approssimazioni” alla rilevazione delle competenze. Ancora non pienamente risolto risulta il nodo della rilevazione delle componenti metacognitiva e affettivo-motivazionale delle competenze.
Le prove Invalsi sono ancora più lontane da questa capacità di rilevazione. Basterebbe ricordare la netta prevalenza in esse delle domande a risposta chiusa, oppure di domande i cui stimoli risultano del tutto non contestualizzati per averne un’idea. Questo aspetto è rilevante non soltanto da un punto di vista metodologico generale, ma anche da quello dell’uso dei risultati da parte delle scuole. Se le scuole debbono poter usare i risultati delle rilevazioni Invalsi per processi di riflessione e di autovalutazione debbono sapere con sufficiente chiarezza che cosa questi risultati misurano.
Non si fa un buon servizio alla “diffusione della cultura della valutazione” – altro compito ufficialmente affidato all’Invalsi dalla citata Direttiva triennale – se si alimentano equivoci su questi aspetti. Le scuole e gli insegnanti potrebbero legittimamente derivarne la convinzione che bastino prove tipo quelle Invalsi per rilevare le competenze. Ma così non è.
La stessa presentazione dei risultati in forma di percentuali di risposta corretta ai singoli quesiti è contraddittoria con l’affermazione che le prove consentano di rilevare e di misurare competenze. Se questo fosse vero, sarebbe necessario e dovrebbe essere possibile individuare (e calcolare) “livelli” di competenza, come avviene nelle indagini internazionali. Ma questo le prove Invalsi non consentono di farlo.
Anche perché è tecnicamente difficile costruire questi livelli sulla base di poche domande per ciascun ambito sul quale le prove sono costruite. Si pensi alle prove di “italiano”, nelle quali sono presenti poche domande di comprensione della lettura, poche domande di grammatica, di lessico, di sintassi. Non entro nel merito di una discussione più tecnica su questo aspetto (che pure andrebbe sviluppata), mi limito, ancora una volta, a rilevare le differenze profonde con le prove utilizzate nelle indagini internazionali.
Le caratteristiche delle prove Invalsi e la loro stessa struttura non consentono alcun confronto diacronico. Sulla base dei risultati delle rilevazioni fin qui effettuate non siamo in grado di dire se ci sia stato un miglioramento o meno. E, infatti, l’Invalsi non ha mai presentato alcuna valutazione in proposito. C’è da chiedersi, però, quale possa essere l’utilità di rilevazioni (censimentarie o campionarie che siano) che non consentono un confronto nel tempo, sia a livello di valutazione di sistema, sia a livello di valutazione delle singole scuole.
Nelle indagini internazionali la comparabilità nel tempo, tra una rilevazione e l’altra, è garantita dal fatto che una parte delle domande non viene resa pubblica, ma al contrario riutilizzata nelle rilevazioni successive (“link item”). Per questo motivo il numero delle domande utilizzate in ogni somministrazione è molto elevato (e molto più alto di quello utilizzato nelle rilevazioni Invalsi), anche ricorrendo a forme “ruotate” delle prove: non tutti gli studenti rispondono alle stesse domande, le prove vengono organizzate in più fascicoli diversi fra loro, in modo da ottenere un numero di risposte sufficiente per ciascuna domanda utilizzata.
È chiaro che questa procedura è valida per una rilevazione da utilizzare in funzione della valutazione del sistema nel suo complesso e che non potrebbe essere adottata per la valutazione dei singoli studenti. Quanto una procedura del genere possa essere utilizzata anche per la valutazione delle singole scuole sarebbe ampiamente da discutere.
Sono assolutamente convinto che i ricercatori dell’Invalsi siano perfettamente consapevoli di questi problemi. Ci si aspetterebbe che fossero riconosciuti esplicitamente e comunicati anche alle scuole e agli insegnanti, proprio per far crescere nel nostro sistema scolastico una più solida cultura della valutazione.
L’uso dei risultati
Da quanto detto precedentemente derivano una serie di conseguenze relative all’uso possibile dei risultati delle rilevazioni.
Intanto va detto con chiarezza alle scuole che, finché non saranno affrontati e risolti i problemi relativi alle caratteristiche delle prove, i risultati che vengono loro restituiti hanno valore per confrontare i propri risultati con quelli delle altre scuole e per un confronto di massima tra i risultati delle singole classi di ogni singola scuola. Si tratta comunque di un confronto molto utile, al quale non possono essere, però, attribuite altre valenze.
Se i risultati fossero accompagnati dalla indicazione di una qualche loro relazione con le variabili di contesto, potrebbero essere utilizzati per approfondire la riflessione su alcune caratteristiche del nostro sistema di istruzione, cercando di andare al di là della individuazione dei divari territoriali e della influenza delle variabili di carattere sociale ed economico che ormai conosciamo. Inoltre, sarebbe interessante vedere se questi divari, nel tempo, si accrescono o diminuiscono, anche in relazione alle politiche scolastiche che vengono via via adottate dai nostri “decisori politici”.
Va detto anche e con chiarezza che ad oggi i risultati delle prove Invalsi non consentono alcuna misurazione del “valore aggiunto” delle scuole. Misurare il valore aggiunto è un’impresa quanto mai difficile, sulla quale esiste un ampio e approfondito dibattito a livello internazionale. Forse sarebbe più utile impostare (anche con le scuole) una riflessione seria sulla utilità o meno di questa misura e sul come costruirla, piuttosto che indicarla come un obiettivo a breve termine delle rilevazioni. È chiaro che questo comporta anche una discussione aperta e approfondita sulla opportunità/necessità della valutazione delle scuole e degli esiti possibili di questa valutazione.
Fino ad oggi, mi sembra che la discussione si sia collocata su un piano prevalentemente di tipo politico-ideologico, anche e soprattutto per responsabilità dei decisori politici a livello nazionale. Sarebbe utile, invece, una discussione di merito su questo aspetto, in cui vengano chiariti obiettivi, motivazioni, prospettive, metodi e procedure utilizzabili. In questa discussione uno dei punti fondamentali da chiarire credo sia quello del rapporto tra valutazione esterna e autovalutazione.
Va ricordato che proprio nei paesi (soprattutto europei) in cui esiste una tradizione più consolidata di valutazione esterna delle scuole, essa si intrecci sempre di più con il sostegno ai processi di autovalutazione, nell’obiettivo comune non di “premiare” i migliori, ma di migliorare la qualità e l’equità dei sistemi di istruzione nel loro complesso.
Il disegno delle rilevazioni
Ai temi sopra ricordati si riallaccia quello del disegno delle rilevazioni. La scelta fatta nel nostro paese è quella di realizzare rilevazioni “censitarie” alle quali partecipano, cioè, tutte le scuole. Questa scelta è funzionale, come ricordato, alla valutazione delle singole scuole. All’interno dell’ “universo”, però, l’Invalsi seleziona comunque un campione rappresentativo di tipo probabilistico. È sulla base dei risultati di questo campione che vengono costruite le misure con cui le singole scuole possono confrontare i propri risultati. Sono i risultati di questo campione che vengono presentati nei rapporti Invalsi.
La giustificazione della scelta di selezionare un campione è data dall’Istituto in riferimento alla necessità di avere dati più affidabili. Questa maggiore affidabilità è garantita dal fatto che le procedure di somministrazione nelle scuole campione sono più rigorose (somministratori esterni) che non nel resto delle altre scuole. Questo come conseguenza della osservazione di quelli che lo stesso Invalsi ha definito “comportamenti opportunistici”. Le domande che derivano da questa scelta sono molte. Prima fra tutte quella relativa alla possibilità di usare i risultati delle scuole non campione per una loro valutazione. Se i dati non sono affidabili, che senso ha utilizzarli per valutare le scuole? E, ancor più, che senso avrebbe utilizzarli per costruire misure di valore aggiunto?
Capisco l’importanza di offrire a tutte le scuole una opportunità di confrontarsi con tutte le altre. Ma stanti tutti i limiti e i problemi esistenti e in considerazione dei vincoli anche di risorse con i quali dobbiamo confrontarci, è opportuno continuare a realizzare rilevazioni di tipo censitario? Non si potrebbero sperimentare altri disegni che affianchino, ad esempio, alle rilevazioni campionarie modalità di distribuzione delle prove (e dei relativi criteri e apparati di correzione, anche in forma informatizzata) a tutte le altre scuole dopo la rilevazione campionaria?
Si garantirebbero comunque i dati nazionali campionari, si darebbe comunque alle scuole la possibilità di confrontarsi con questi dati, si risparmierebbero risorse che potrebbero essere utilizzate in altri modi. Ad esempio allargando le rilevazioni ad altri ambiti (non si possono valutare i sistemi di istruzione e le singole scuole soltanto sul rendimento degli studenti in lingua madre e in matematica, per quanto importanti esse siano). Si potrebbe, soprattutto, provare a sperimentare formati innovativi delle prove, anche utilizzando le possibilità offerte dalle nuove tecnologie.
Alcune questioni aperte
Un’ultima serie di questioni è relativa a “chi fa che cosa”. Nei paesi con forme più consolidate di cultura e di attività valutative, diversi soggetti si occupano di diversi livelli di valutazione. Non esiste quasi nessun paese in cui un unico istituto o un’ unica agenzia sia responsabile della valutazione del sistema, della valutazione delle scuole, della certificazione dei livelli di rendimento degli studenti, della valutazione del personale. La consapevolezza di questo aspetto era presenta nel Quaderno bianco elaborato dai ministeri dell’Istruzione e dell’Economia durante il governo Prodi. Poi la discussione (e le proposte) si è bloccata.
Non credo che spetti all’Invalsi farsi carico di tutti questi livelli di valutazione, sarebbe un errore molto rilevante anche e soprattutto per le conseguenze che potrebbe avere una scelta di questo tipo sul rapporto dell’Istituto con le scuole. Né credo possa essere responsabile l’Invalsi del sostegno alle scuole nei loro processi di autovalutazione. In proposito sarebbe legittimo chiedersi quale ruolo sia in grado di assumere l’attuale Ansas (personalmente ho molti dubbi in proposito).
Il recente progetto di valutazione/autovalutazione promosso dal Miur – il progetto Vales – lascia intravedere per la valutazione delle scuole una scelta di altro tipo, con la costituzione di appositi nuclei di valutazione. Non voglio qui affrontare le caratteristiche di questo progetto (prima fra tutte la mancanza di un qualsiasi piano per il suo monitoraggio e la sua valutazione), ma credo sia interessante rilevare che per quanto riguarda la valutazione delle scuole prospetti procedure diverse da quelle adombrate dalla Direttiva triennale.
Se si vuole adottare una prospettiva di questo genere e una volta garantita l’autonomia dei “valutatori” dal ministero (in Vales questa autonomia è pressoché nulla), la discussione poterebbe allora rivolgersi al modo in cui i risultati delle rilevazioni Invalsi possano essere utilizzati in processo più ampio di valutazione delle scuole. Ricordando che nei paesi in cui l’esito delle rilevazioni sul rendimento scolastico degli studenti è utilizzato con questa funzione (come ad esempio in Inghilterra), esso viene rilevato nell’ambito non di rilevazioni censitarie a livello di sistema, ma a livello di certificazione dei livelli raggiunti dai singoli studenti in alcuni momenti chiave del percorso di istruzione (in Inghilterra i “key stage”).
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La si vuole davvero, nel nostro Paese, la valutazione?
di Marina Boscaino
Quando Giorgio Morale mi ha proposto di occuparmi del progetto Vales – chiedendomi cosa ne pensassi – gli ho risposto che credevo che da qualche parte si dovesse pur iniziare, e che mi sarei occupata di andare più a fondo di quanto giornali e riviste ci avessero già raccontato del progetto. Mi ha incuriosito in primo luogo il fatto che, dopo il flop clamoroso delle due proposte Gelmini, illustrate nella “giornata epocale” (seguita all’altrettanto “epocale riforma”), il 19 novembre del 2010, e miseramente naufragate nel giro di pochi mesi, la scuola italiana abbia risposto positivamente alla nuova proposta, questa volta targata Profumo. Sono state infatti 1053 le scuole che hanno aderito, delle quali solo 300 parteciperanno alla sperimentazione.
Che il clima sia cambiato in maniera così netta, ne dubito, anche se l’allontanamento di Gelmini da Viale Trastevere ha rappresentato per molti la fine di un incubo. D’altro canto, però, l’attuale inquilino non si è per il momento segnalato per un’attenzione particolare riservata alla scuola – a parte il mantra dell’innovazione e della tecnologia, al quale non sono seguiti provvedimenti apprezzabili. E, casomai, la lettera pasquale recentemente inviata alle scuole crea non poche perplessità: essa evidenzia un’idea di scuola in cui non ricorrono mai le parole cultura, conoscenza, educazione; e che viene indicata come necessario complemento a una visione moderna del mercato del lavoro. Molti di noi non la pensano così.
Un po’ di storia precedente
Cosa era accaduto il 19 novembre? Erano stati presentate due espressioni tipiche del dilettantismo, quello sì davvero epocale!, che ha caratterizzato il mandato di Gelmini. Due progetti abborracciati, prodotti frettolosamente tanto per dare un segno della meritomania dell’immeritevolissima ministra. 31 milioni di euro per premiare un ristretto numero di insegnanti (progetto Valorizza, annuale) e di scuole (progetto VSQ – Valutazione per lo sviluppo della qualità delle scuole – triennale).
Il primo, destinato alla premialità del merito degli insegnanti, che prevedeva almeno 40 adesioni nei comuni di Torino e Napoli, riuscì a raggranellare, nonostante l’ampliamento ad oltranza della platea di potenziali aderenti, per trovare nuovi adepti, 33 adesioni tra le province di Torino, Napoli, Milano. L’iniziale progetto VSQ prevedeva di avviare la sperimentazione in 173 scuole medie di Pisa, Siracusa e Cagliari, racimolando invece 77 scuole tra Siracusa, Mantova, Pavia e Arezzo, con la defezione in massa dei collegi dei docenti di Pisa e Cagliari.
Il dissenso delle scuole fu all’epoca evidentemente dovuto anche alla politica di profonda delegittimazione della scuola che ha caratterizzato l’ultimo governo Berlusconi: oltre alle ben note esternazioni del premier sui docenti italiani e sull’azione di manipolazione delle coscienze condotta dalla scuola statale, ci pensò Brunetta con tutto il disprezzo possibile nei confronti degli insegnanti a rafforzare nella coscienza collettiva il rapporto di causa-effetto tra valutazione e una serie di elementi per lo più arbitrari e punitivi, di controllo, selezione, premialità. Grazie al Brunetta pensiero e al disprezzo che è stato spalmato a piene mani sulla scuola italiana, nonché alla parallela operazione di “semplificazione e razionalizzazione” operata dalla legge 133/08, che è costata 135mila posti di lavoro tra docenti ed Ata, le operazioni legate alla valutazione si sono attirate (in quel caso giustamente) il sospetto degli operatori della scuola.
Eppure molti di noi non rifiutano la valutazione senza se e senza ma. Anzi. Ma rifiutano una valutazione che semplifichi i propri processi sostituendo alla propria finalità di determinare elementi di analisi e miglioramento del sistema scolastico quella di individuare ad un tempo bastone e carota per quei fannulloni degli insegnanti e segnare un punto rispetto alle presunte richieste dell’UE. Sulla complessità di un’operazione realmente significativa si è espresso in maniera chiara ed esauriente Benedetto Vertecchi.
VALeS
E invece proprio dall’Europa parte la lettera aperta con cui il ministro Profumo ha accompagnato la presentazione del progetto: Cari Dirigenti, nelle recenti raccomandazioni dell’Unione Europea al Governo italiano il tema della valutazione delle scuole e del riconoscimento delle professionalità degli insegnanti ha uno specifico risalto. Sul tema dell’Europa e dell’interpretazione e dell’accoglimento delle sue richieste ho già detto altrove.
È stato proprio questo binomio – connotato da un eufemismo non inutile, la professionalità degli insegnanti – che ha permesso di scindere la questione della valutazione delle scuole da un progetto ritorsivo e punitivo di valutazione degli insegnanti e di configurare un’adesione più convinta alla prospettiva di Profumo: anche l’occhio, l’orecchio e gli altri sensi vogliono la propria parte. Si è insinuata, cioè, l’impressione che nessuna idea di premialità muova le fila di questo progetto, essendo essa considerata in questa fase prematura e controproducente.
Le scuole ammesse a partecipare alla sperimentazione del progetto Vales saranno scelte in base all’ordine cronologico di presentazione delle domande e con equa distribuzione degli istituti sul territorio nazionale e il bilanciamento tra I e II ciclo.
Nella sua prima fase, il progetto prevede un’analisi della scuola, condotta da differenti punti di vista, come sistema complesso. Le prospettive saranno individuate in base ad un protocollo di visita e analisi delle scuole apposito, affidato a nuclei di valutazione con a capo ispettori ministeriali. Rapporti di valutazione, conseguenti il primo all’analisi iniziale, il secondo all’analisi conclusiva, restituiranno il senso di eventuali cambiamenti avvenuti durante il periodo del monitoraggio della scuola e dell’intermedia elaborazione di un Piano di miglioramento.
Di cosa si tratta? Al termine della prima fase di analisi sarà consegnato alla scuola il primo rapporto di valutazione, che individuando criticità ed elementi positivi, dovrebbe indirizzare l’istituto a progettare in autonomia un percorso di miglioramento per il quale sono stanziati – tenetevi forte – dai 10mila ai 20mila euro.
La sperimentazione prevede nel secondo anno – previa una fase di autovalutazione e progettazione – un’azione di intervento sulle criticità, al fine di arrivare al terzo anno – quello della valutazione finale – nella condizione di poter comparare il primo con il secondo rapporto, le condizioni di partenza e quelle risultanti dall’azione del Piano di miglioramento. Attraverso una preliminare depurazione – prevista dal modello di valutazione – delle condizioni di contesto – vantaggio o svantaggio – nelle quali scuole, studenti e insegnanti si trovano a vivere: il famoso “valore aggiunto”, su cui Giorgio Tassinari, ordinario di statistica dell’università di Bologna e membro dell’associazione Per la scuola della Repubblica, ha pubblicato alcune interessanti osservazioni.
Un particolare capitolo del progetto è dedicato alla valutazione dei dirigenti scolastici, i cui tentativi spalmati nel tempo si sono caratterizzati per fiumi di inchiostro, progetti, normativa e sperimentazioni che si sono succeduti in un’inconcludente terra di nessuno, oscillante tra intenzionalità e concretezza sempre contrapposti; quel “vorrei ma non posso” che non ha consentito nemmeno alla stessa dirigenza scolastica di essere collocata allo stesso livello delle altre dirigenze della pubblica amministrazione. A prescindere dal giudizio di merito sulla sua opportunità e sull’interpretazione dell’autonomia scolastica.
Infine
Le scuole hanno accettato di mettersi in gioco. Tra gli elementi critici del Vales, quelli che farebbero pensare – senza disfattismo, ma con sano realismo – ad un tentativo velleitario e difficilmente significativo ci sono da annoverare: a) i fondi irrisori; b) la debolezza numerica del corpo ispettivo; c) nel metodo: il problema del rapporto variabili dipendenti/indipendenti sottolineato da Vertecchi e del valore aggiunto, evidenziato dallo stesso Vertecchi e da Tassinari . Ma, soprattutto, la scarsa definizione – a fronte di un’idea vaga di “miglioramento” – di cosa si debba migliorare.
Gli apprendimenti degli studenti, si potrebbe suggerire: un capitolo che – al di là delle varie sperimentazioni che si sono susseguite – esprime un trend negativo ormai da lungo tempo, se si pensa che le capacità di letto-scrittura dei quindicenni scolarizzati sono diminuite dal 2000 al 2008 in modo drammatico. Ma anche senza basarsi su test la cui oggettività determina non pochi sospetti, come quelli dell’Ocse Pisa ai quali Vertecchi fa riferimento nell’articolo linkato qui sopra, la débacle da questo punto di vista è abbastanza diffusamente sotto gli occhi di quanti, come me, ogni giorno varcano il portone di una scuola e ogni giorno entrano a contatto con una popolazione studentesca ed una popolazione di insegnanti sempre più analogamente – sebbene per motivi differenti e con differenti legittimazioni – demotivate.
Lo scoppiare periodico di casi che la stampa rilancia con maniacale attenzione per qualche giorno – non ultimo quello dei compiti a casa – ci dice un girare intorno l’argomento principale: una revisione profonda, seria e significativa del modo di fare scuola. Del modo di interpretare la dimensione docente. Del perché, del cosa e del come insegnare, affinché la scuola torni ad essere davvero quel luogo significativo ed insostituibile di formazione di cittadinanza consapevole attraverso l’apprendimento, la cultura, l’educazione. È un’impresa improba, considerando il bricolage che ci è stato imposto da anni di disinvestimento economico – ma soprattutto culturale – sulla scuola.
E allora voglio tentare di sottolineare l’aspetto del progetto Vales che mi sembra più qualificante: restituire alla scuola, alle scuole, la funzione di luogo di ricerca, sperimentazione e sviluppo previsto dall’art. 6 del Dpr 275/99. L’aspetto dell’autonomia scolastica più colpevolmente trascurato ed omesso. Ricerca e sperimentazione, nelle intenzioni del progetto, finalizzata al miglioramento. Un miglioramento che, a mio avviso, però, senza una adeguata preparazione dei docenti ed uno stanziamento di risorse dignitoso, non ha alcuna possibilità di verificarsi. Rischiando di relegare questo progetto nel dimenticatoio delle buone intenzioni, delle premesse positive disperse in un rivolo di progettualità abortita e spuria, a fronte delle mille emergenze alle quali la scuola si trova in questo momento chiamata a rispondere.
Si dice tanto che i docenti sono contrari in maniera ideologica alla valutazione. Qualcuno ha scritto che i valutatori non vogliono essere valutati. Con le dovute innegabili differenze, la perplessità continua ad essere ancora quella di trovarci – sfrondato il sospetto di una meritomania inopportuna – davanti ad un tentativo un po’ velleitario di allinearci formalmente alle esperienze europee, possibilmente a costo quasi zero. Senza tener conto che condizioni di partenza e impegno economico sono elementi fondamentali per determinare la qualità e il successo di un’iniziativa. I loro non sono i nostri.
La determinazione di interventi di breve periodo e di scarso respiro culturale, ma anche scientifico, fanno riemergere ancora una volta una domanda che emerge da più parti: “La si vuole davvero, nel nostro Paese, la valutazione”? Nel senso: il nostro governo, i nostri governi, sono veramente disponibili ad investire risorse e studio su una valutazione che conduca ad evidenze statisticamente, economicamente, pedagogicamente, culturalmente significative? La risposta sembra continuare ad essere la stessa.
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Materiali
Come deve esser fatta una buona valutazione?
di Benedetto Vertecchi
(intervista a cura di Stefano Iucci)
Per la valutazione vale quello che in generale si dice di tutti i sistemi complessi: ci accorgiamo che essi esistono solo quando non funzionano. Se noi digeriamo bene, ad esempio, non pensiamo al nostro apparato digerente: cominciamo a farlo solo quando registriamo dei problemi. Per la valutazione è un po’ la stessa cosa. Se ne comincia a parlare con maggior frequenza quando si avvertono disagi e malfunzionamenti e però – questo è il paradosso – è qui che si nasconde anche un rischio: pian piano la valutazione inizia a essere considerata una sorta di medicina per curare i “mali” che abbiamo scoperto. Ma la valutazione non può essere una medicina, non può guarire: la “cura medica” rappresenta, infatti, un’incursione meccanicistica in un processo che invece presuppone una variazione continua…
Il problema di una moderna valutazione non è quello di esprimere un giudizio hic et nunc su insegnanti e studenti, ma di capire come stanno cambiando i diversi fenomeni che interessano la scuola per incidere sull’intero processo… Non mi stancherò mai di ripeterlo: è necessario sviluppare un’attività valutativa che incrementi la capacità di interpretazione e dunque di cambiamento del sistema…
I test nella fattispecie vengono ridotti esclusivamente a prove a risposta chiusa od obbligata. Tuttavia, se riduciamo la valutazione a questo, avremo una rilevazione della capacità dei ragazzi solo sincronica, fotografica. A che ci serve? È come scattare l’istantanea di qualcuno che sta precipitando dal quinto piano. Finché è per aria è vivo, ma poi?…
Un vero salto di qualità sarebbe reso possibile dall’uso della tecnologia che ci permetterebbe di prendere in considerazione una quantità enorme di dati, sui quali poter analizzare il sistema a fondo e nel tempo… Se pure si volesse continuare a usare il sistema dei test Invalsi, per dargli senso occorrerebbe un apparato scientifico e tecnico imponente per studiare e analizzare i dati. Pensi che l’agenzia Usa di valutazione, l’Educational Testing Service con sede a Princeton, ha molte migliaia di ricercatori che elaborano dati e fanno ricerca oltre che fornire servizi…
Quando sono stato presidente del Cede – e per un breve periodo dell’Invalsi – coinvolgemmo molte scuole in un’attività valutativa che non incontrò alcun ostacolo. La quantità di ricerche e azioni realizzate in quegli anni fu impressionante. Il motivo è semplice: la scuola vedeva il Cede come un’organizzazione di ricerca e nei confronti della ricerca non c’è diffidenza; la diffidenza è venuta dopo, quando con la Moratti l’Invalsi veniva presentato come una sorta di Grande Inquisitore. Si è passati, certo più nelle intenzioni dei politici che di chi vi lavorava, da una struttura che aveva come scopo l’approfondimento e l’analisi a un’altra che ha assunto un altro ruolo: quello di sbirro, di sentinella. (continua qui)
(Sempre Benedetto Vertecchi sul progetto VALeS qui)
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Due o tre cose sul progetto VALeS
di Giorgio Tassinari
Il cuore del progetto VALeS e la principale novità rispetto all’approccio “tradizionale” dell’Invalsi sta nel fatto che gli apprendimenti saranno valutati con il metodo del “valore aggiunto”, che si pretende consenta di depurare i risultati dei test dalle condizioni al contorno. “I modelli di valore aggiunto consentono di confrontare le scuole a parità di condizioni (…) evitando che queste si avvantaggino – o siano penalizzate – da quanto non è sotto il loro diretto controllo” (sempre dal sito del ministero).
Ed è proprio questa proposizione che ci poniamo l’obiettivo di contestare in questa sede.
Se ci focalizzassimo unicamente sulle misure di tipo puntuale per la valutazione delle scuole e degli insegnanti non potremmo tener conto della qualità del percorso scolastico precedente degli alunni né dei fattori di tipo non scolastico che influenzano la loro performance. Questi fattori sono altamente correlati con le caratteristiche strutturali delle famiglie, quali il gruppo etnico o il reddito. Ne risulta che molta parte della variabilità nei punteggi medi delle scuole è causata da questa disuguaglianza nei “punti di partenza” che difficilmente può essere tenuta sotto controllo dagli insegnanti. (continua qui)
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A proposito del nuovo progetto ministeriale per la valutazione delle scuole
di Antonio Valentino
Penso che l’analisi dei testi a disposizione sul progetto VALeS offra elementi convincenti…
- È vero che il progetto riprende la tematica della valutazione che era al centro dei due progetti Gelmini del novembre del 2010. Ma la riprende con alcune sostanziali differenze. La sperimentazione non è finalizzata a individuare i migliori docenti e le migliori scuole da premiare, ma è piuttosto un modo – almeno questo si deduce abbastanza facilmente – per far emergere e organizzare le risorse professionali più preparate e/o disponibili ad un più elevato sviluppo professionale. Si afferma al riguardo (v. Circ. del 3 febbraio) che “non sono previste premialità alle scuole che raggiungono risultati migliori, ma finanziamenti per tutte le scuole [dai 10.000 ai 20.000 mila euro sul triennio], rapportati agli obiettivi da raggiungere”. E si precisa: “alle scuole in maggiori difficoltà sarà (…) garantito un maggiore supporto per sostenere il piano di miglioramento”…
- La sperimentazione viene presentata come “ricerca partecipata”, nella quale “alle scuole non verrà chiesto di applicare degli strumenti di miglioramento predefiniti, ma, in modo più impegnativo, di contribuire alla loro elaborazione e regolazione. In questo modo potrà essere garantita una maggiore flessibilità nell’attuazione del progetto”…
- Sono previste azioni di sostegno, di accompagnamento, di consulenza o altro, da concordare con l’INDIRE, ma anche di formazione mirata alla realizzazione del Piano…
Ovviamente non mancano le zone d’ombra e le criticità. Ne cito alcune:
- Tra le finalità generali c’è particolare enfasi sulla cultura della “valutazione esterna”, mentre si parla poco e di sfuggita di cultura della valutazione interna di istituto. Che sappiamo essere condizione importante per sviluppare riflessività, analisi, autovalutazione e quindi consapevolezza interna; senza le quali ogni miglioramento appare difficile… (continua qui)
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Vales! Un infuso di camomilla contro una broncopolmonite… che rischia di diventare cronica!
di Maurizio Tiriticco
Sono in molti a chiedermi cosa penso di Vales! Penso semplicemente che non puoi valutare lo stato di salute di un infermo di cui già sai di quali medicine necessita! Andiamo a valutare come e perché uno zoppo non potrà mai gareggiare per i cento metri? E gli diciamo anche che è bravo perché riesce a fare qualche passo? Illuderlo che tutto va ben, madama la marchesa? E perpetuare così il suo cattivo stato di salute? Per me è un perdere tempo e soldi! E poi tre anniii! Un’infinitààà!!! Tre anni di carte su carte, di menar il can per l’aia! Mentre il malato magari continua a peggiorare! Possibile che non si abbia il coraggio di porre mano a ciò di cui il nostro sistema di istruzione ha veramente bisogno? (continua qui)
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L’INVALSI: un edificio dalle fondamenta traballanti
di Enrico Maranzana
Il ciclone “valutazione” si è abbattuto sulla scuola, originato da raccomandazioni europee. Il fatto che l’INVALSI radichi su una sollecitazione esterna, formulata da un ente che opera per ottimizzare l’impiego delle risorse, è di notevole significatività: la scuola è vista come una entità impenetrabile, i cui processi interni sono privi di significato per cui il controllo sarà da esercitare sui risultati che l’istituzione produce. La lettura dell’articolo della legge che ha costituito l’istituto romano offre molti elementi a sostegno di questa tesi….
Gli aspetti costitutivi dell’Invalsi coprono solo una piccola parte della questione qui affrontata: la sollecitazione europea ha condizionato l’inquadramento del problema “valutazione della qualità del servizio” e ha condotto a una sua definizione inadeguata. Il breve periodo è l’ambito entro cui sono stati identificati i risultati attesi. Si tratta di una semplificazione che non fa i conti con le dinamiche scolastiche, i cui esiti sono visibili solo nel lungo andare: la bussola del sistema educativo punta alle capacità!
L’attività educativa è analoga a quella dei vivaisti che allevano piante d’alto fusto: soltanto a distanza d’anni si può constatare e apprezzare l’esito del lavoro fatto. Nel breve periodo il controllo focalizzerà esclusivamente la normalità dell’evoluzione, le pratiche d’allevamento, l’esposizione, i fattori accidentali, vale a dire aspetti procedurali e ambientali. (continua qui)
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De merito. I sistemi di valutazione nei Paesi dell’Unione Europea
di Pino Patroncini
Premessa – Un po’ di storia. Nel dibattito sulla valutazione (Invalsi, Brunetta. Aprea ecc.) si sente spesso dire: «L’Italia è l’unico paese europeo che non ha la valutazione delle scuole o degli insegnanti». Questa è solo una mezza verità, perché, se è vero che l’Italia ha “poca valutazione”, nel senso anche di pochi strumenti di controllo e di verifica, normalmente questa affermazione sottintende un tipo di valutazione o una sua finalità specifica, mentre sarebbe più giusto parlare di valutazioni al plurale o di diverse finalità della valutazione. E poi sarebbe giusto capire che cosa si intende per valutazione oggi, che non è esattamente quello che si intendeva cinquanta o trenta anni fa.
Infatti il tema della valutazione, sia esso del sistema scolastico, delle singole scuole o degli insegnanti, è un tema che ha acquistato peso a partire dalla fine degli anni Ottanta (ricordo che il primo convegno della CGIL Scuola sul tema è stato nel 1989, quando ministro era − mi pare − Mattarella). Il tutto era legato anche al tema della valorizzazione professionale, che però fino a quel momento aveva ruotato più sulla questione degli orari (la CGIL Scuola era per il full-time, battuta nel “referendum” del1’85 a favore della “incentivazione spicciola”, sostenuto dalla CISL, scelta che fu alla base dell’istituzione del fondo di incentivazione, oggi FIS) che su quella della qualità professionale del singolo insegnante.
Ma negli anni Novanta il tema della valutazione ha preso una piega più aziendalista e neoliberista, un po’ dovunque nel mondo, parallelamente a quello che avveniva nel resto del sistema economico (pensiamo ai controlli di qualità o di processo o all’ISO 9000). (continua qui)
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Perché gli Stati Uniti distruggono il loro sistema scolastico
di Chris Hedges
Una nazione che distrugge il proprio sistema educativo, degrada la sua informazione pubblica, smantella le proprie librerie pubbliche e destina le proprie onde radio a un intrattenimento stupido e dozzinale, diventa cieca, sorda e muta. Stima i punteggi nei test più del pensiero critico e dell’istruzione, celebra l’addestramento meccanico al lavoro e la singola, amorale abilità nel far soldi. Sforna prodotti umani rachitici, privi della capacità e del vocabolario per contrastare gli assiomi e le strutture dello stato-azienda, e li incanala in una casta di gestori di droni e di sistemi. Trasforma uno Stato democratico in un sistema feudale di padroni e servi delle imprese.
Il superamento di test a scelta multipla celebra e premia una forma peculiare di intelligenza analitica, apprezzato dai gestori e dalle imprese del settore finanziario che non vogliono che dipendenti pongano domande scomode o verifichino le strutture e gli assiomi esistenti: vogliono che essi servano il sistema. Questi test creano uomini e donne che sanno leggere e far di conto quanto basta per occupare posti di lavoro relativi a funzioni e servizi elementari. I test esaltano quelli che hanno i mezzi finanziari per prepararsi ad essi, premiano quelli che rispettano le regole, memorizzano le formule e mostrano deferenza all’autorità. I ribelli, gli artisti, i pensatori indipendenti, gli eccentrici e gli iconoclasti – quelli che pensano con la propria testa – sono estirpati. (continua qui)
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La classifica: domande
di Mario Piemontese
Il 12 aprile l’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia ha pubblicato i risultati ottenuti dalle 25 scuole secondarie di I grado di Pavia e Mantova che hanno aderito al progetto sperimentale triennale “VSQ” – Valutazione per lo Sviluppo della Qualità delle scuole.
Al termine del primo anno, a ognuna delle prime 6 scuole in classifica sono stati assegnati 35.000 euro destinati alla distribuzione tra il personale docente e ATA secondo criteri stabiliti dalla contrattazione di istituto. In buona sostanza un premio. Alle altre 19 nulla.
1. In una scuola i risultati delle prove INVALSI producono effetti su tutto il resto e viceversa?
2. Se una scuola intende risalire la classifica per ricevere il premio, fissato un sistema di valutazione così fatto, su cosa punterà, sulle prove INVALSI o su tutto il resto?
3. Sarà vero che gli studenti delle scuole in fondo alla classifica sanno poco di italiano e matematica?
4. Sarà vero che gli studenti delle scuole in testa alla classifica sanno tutto di italiano e matematica? (continua qui)
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La settimana scolastica
Anche questo riguarda la scuola. Fa senso parlare di valutazione e miglioramento del sistema con sullo sfondo le notizie della settimana. Mancano i soldi per le borse di studio agli studenti meritevoli, mentre con 130.000 euro di finanziamento pubblico la Lega laurea Renzo Bossi: come si fa a non collegare le due cose e a trarne una diagnosi della scuola italiana? E’ questa la vera degradazione del titolo di studio, dice Francesco Merlo. Ma le lauree false non erano solo prerogativa del Sud? si domanda Pasquale Almirante. O forse è rassicurante pensare al fatto che, in base al Decreto Semplificazioni appena trasformato in legge, le risorse della scuola dipendono dal gioco del Lotto?
E quando, oltre all’Ocse, anche uno studio commissionato dall’ex ministro Gelmini dichiarerebbe l’arretratezza delle scuole paritarie rispetto alla scuola pubblica statale, nonostante i finanziamenti pubblici, come si può ritenere giusto che le scuole private religiose non paghino l’IMU? O forse, mentre gli edifici scolastici cadono a pezzi (segnaliamo una riflessione di Osvaldo Roman sull’impegno in questo senso del governo), dovremmo essere in ansia per le sorti della scuola Bosina di Varese, fondata nel 1998 dalla signora Manuela Marrone (moglie di Umberto Bossi)?
Niente tagli o ancora tagli? E come gioire se il ministro Profumo in un’intervista dice che l’anno prossimo non ci saranno altri tagli per la scuola, se comunque per gli effetti del “dimensionamento” 1.013 istituzioni scolastiche saranno chiuse il prossimo anno scolastico? E se comunque nell’ultimo anno 20.000 ricercatori sono stati espulsi dal sistema accademico? E se il tanto sbandierato aumento degli organici ai conti di Mario Piemontese risulta un gioco a somma zero? Pippo Frisone riconta e ha lo stesso risultato:
Il tanto sbandierato organico funzionale è stato stoppato dalla Ragioneria dello Stato assieme ai 10.000 posti aggiuntivi. Gli unici posti aggiuntivi che vedranno le scuole deriveranno dai 10.000 esuberi che si prevedono per il 2012/13. I docenti in esubero che non troveranno sistemazione in organico di fatto su posti interi o su spezzoni, verranno assegnati con messa a disposizione a zero ore alle scuole. Una risorsa in più per le scuole sì ma sempre fino a quando la riforma dell’ art.18 lo permetterà.
Difatti il 2 aprile scorso sono cominciate trattative tra sindacati e amministrazione per la stipula del contratto sulla mobilità annuale: il testo negoziale che dovrà regolare la ricollocazione dei circa 10.000 docenti in esubero e degli altri che andranno in soprannumero nell’organico di diritto.
Chiamata diretta. Sempre in tema di occupazione e reclutamento: il 4 aprile è stato approvato da parte del Consiglio regionale lombardo l’art. 8 del P.d.L. Regionale n. 146, “Misure per la crescita e l’occupazione“, quello che prevede la “chiamata diretta” per concorso d’istituto da parte delle singole scuole dei docenti per una “sperimentazione” di “reclutamento regionale“.
Molte le reazioni. Francesco Scrima, segretario della Cisl scuola, parla di “intervento che invade le competenze dello Stato“. Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil, chiede al ministro Profumo di “esprimere immediatamente un parere negativo”. L’Anief (Associazione professionale sindacale) annuncia che farà ricorso in Tribunale. Applaudono l’AGeSC (Associazione Genitori Scuole Cattoliche) e il dirigente dell’Ufficio Scolastico Territoriale di Milano Giuseppe Petralia.
Molte anche le analisi. Per Pino Patroncini si tratta di un eccesso di autonomia che non giova alle scuole. Mila Spicola consiglia “un po’ di ripasso di Costituzione“. Per Pasquale Almirante si tratta di “un pasticcio… Professori addomesticati già in ingresso e ancor più addomesticabili in itinere”. Per Marina Boscaino “si configura una violazione del principio di laicità della scuola e della libertà di insegnamento“. Per Lucio Ficara “Alla luce dello scandalo che sta colpendo la Lega nord, l’art. 8 in questione, oltre ad essere anti-Costituzionale, è soprattutto “consapevolmente” da irresponsabili… Il problema non sta nella norma in sé ma nella persona che la deve applicare… in un’Italia dove la corruzione è dilagante si dovrebbe parlare di regole ferree e trasparenza“. I precari, che sarebbero i più colpiti dal nuovo reclutamento, annunciano una manifestazione a Milano il 21 aprile prossimo.
Legge Aprea. Si continua a discutere sulla proposta di legge 953 (legge Aprea e abbinate) recante Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche statali, approvata il 22 aprile dalla Commissione Cultura della Camera. Gli organi collegiali così come li abbiamo conosciuti spariranno. Vi sarà il consiglio dell’autonomia, una sorta di consiglio di amministrazione di cui faranno parte anche le realtà culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi. Il Dirigente scolastico diverrà un vero e proprio manager. Il Consiglio dei docenti curerà la programmazione dell’attività didattica, nonché il nucleo di autovalutazione il quale, coinvolgendo gli operatori scolastici, gli studenti, le famiglie, predisporrà un rapporto annuale di autovalutazione, anche sulla base dei criteri, degli indicatori nazionali e degli altri strumenti di rilevazione forniti dall’Invalsi. Le Autonomie scolastiche potranno ricevere contributi da fondazioni finalizzati al sostegno economico della loro attività. Nascerà il Consiglio Nazionale delle Autonomie Scolastiche, che è un organo di partecipazione e di corresponsabilità tra Stato, Regioni, Enti Locali ed Autonomie Scolastiche. Le Regioni dovranno istituire la Conferenza regionale del sistema educativo, scolastico e formativo. Ne fornisce una analisi critica Marco Barone, positivo il giudizio di Giovanni Bachelet. Qui alcune osservazioni della Cisl scuola. Critiche da Gilda, Idv, Unione degli studenti.
Nel frattempo la discussione più accesa dell’ultima settimana ha riguardato se sia giusto o no assegnare compiti a casa. Le tiene testa un’altra discussione, se sia giusto tenere le lezioni accademiche solo in inglese, applicando in questo modo l’invito al rinnovamento del ministro Profumo: «La chiave per competere con le migliori università del mondo è l’internazionalizzazione».
Commissario ad acta per il Ministero: immissioni in ruolo da rifare? La notizia che più dovrebbe preoccupare il ministero dell’Istruzione, se nel nostro Paese avessero effetto i pronunciamenti della magistratura, è però questa. A seguito della sentenza n. 4286/11, che ha annullato i decreti ministeriali relativi alle immissioni in ruolo degli ultimi tre anni, limitatamente alla ripartizione del contingente fissato di assunzioni tra regioni e province perchè ritenuto sbilanciato a favore del Nord, il Consiglio di Stato ha emanato la pronunzia n. 2032 del 5/4/12 con cui, preso atto dell’inottemperanza del Ministero, ha nominato il Commissario ad acta per la rinnovazione delle operazioni d’immissione in ruolo. Da rifare gli organici dell’ultimo triennio?
Ancora condanne per l’uso illegittimo del precariato. Altre grane arrivano dal giudice del lavoro di Urbino che ha accolto 27 ricorsi (22 docenti e 5 amministrativi) presentati dalla Flc Cgil. In base alla normativa europea i lavoratori che hanno lavorato da oltre tre anni presso la stessa amministrazione hanno diritto a essere assunti stabilmente. In attesa che il ministero apra le maglie delle assunzioni, hanno diritto a un risarcimento danni di circa 22.000 euro per l’ingiusto precariato oltre agli scatti di anzianità. Altri 80 ricorsi sono in attesa di decisione avanti al tribunale di Pesaro.
Concorso per dirigente scolastico. Dai risultati delle prime sette regioni in cui le commissioni hanno completato la correzione degli elaborati scritti emerge che approda alla prova orale un solo candidato su tredici. In due regioni il numero degli ammessi agli orali è inferiore ai posti messi a concorso. Qui un quadro della situazione ad oggi. Commissioni severe o docenti impreparati? si domanda Salvo Intravaia.
Il contesto. Intanto veniamo a sapere che il reddito medio degli italiani è pari a 19.250 euro. Stando ai dati del Ministero del Tesoro basati sulle ultime dichiarazioni dei redditi, il 49% dei contribuenti italiani ha un reddito complessivo lordo annuo che non supera i 15.000 euro l’anno, mentre un terzo non supera i 10.000 euro.
Solo l’1% dei contribuenti dichiara redditi superiori ai 100.000 euro, mentre sono 30.590 i soggetti (lo 0,07% dei contribuenti) che dichiarano oltre 300.000 euro. Sono i soli a cui verrà applicata il contributo di solidarietà del 3% negli anni d’imposta 2011-2013.
Il reddito medio dichiarato dagli imprenditori è pari a 18.170 euro. Il reddito medio dichiarato dai lavoratori dipendenti è pari a 19.810 euro: gli imprenditori quindi sono più poveri dei loro dipendenti (vedi qui).
Secondo le ultime rilevazioni Istat, la disoccupazione giovanile in Italia continua ad aumentare e si attesta al 31,9%. Nella fascia tra i 15 e 24 anni essa sale alla soglia del 32,6%: si tratta del dato peggiore dal 1992, cioè dall’inizio delle serie storiche dell’Istat.
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Segnalazione: A Milano, lunedì 16 aprile alle ore 21 al Circolo Milano Magenta di via Ferrario 5 e sabato 21 aprile dalle ore 9 alle ore 13 presso la scuola Cadorna di via Carlo Dolci due incontri su: Dove vivo, io esisto: l’Italia siamo tutti! La cittadinanza ai bimbi nati in Italia da genitori “stranieri”: riflettiamo sulla proposta di legge e sulla presenza dei bambini di diverse provenienze nelle scuole italiane.
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