Convegno nazionale “Contratto e professione docente” - Seconda parte

  • 15.00

    Convegno FLC CGIL 12 luglio 2017La sessione pomeridiana (i lavori della mattinata) del Convegno nazionale della FLC CGIL “Docenza scolastica e contratto” riprende con la relazione di Raffaele Miglietta, Centro nazionale FLC CGIL, che presenta i più recenti dati, tratti dal Conto Annuale 2015 del Mef e dallo studio Education at a Glance 2016 dell’OCSE, sulla condizione di esercizio della professione docente in Italia in rapporto ai paesi europei e dell’area OCSE.

    Il primo dato che emerge è che tra i docenti italiani c’è una forte prevalenza delle donne (82%) rispetto agli uomini (18%). Altro aspetto rilevante è che l’età media dei docenti italiani è piuttosto alta (52 anni) e che, rispetto al resto del mondo, il nostro paese ha la classe docente più anziana. Confrontando alcuni aspetti che caratterizzano le condizioni di lavoro è possibile notare una situazione abbastanza omogenea tra i docenti italiani e i docenti degli altri paesi. Un primo elemento che emerge è che l’Italia ha un numero di giorni di lezione per anno (200) superiore tanto alla media OCSE (185) che alla media UE (182); invece per quanto riguarda il numero di alunni per classe, la media italiana (20) è in linea con quella europea (20) e sostanzialmente con quella OCSE (21); infine riguardo al rapporto alunni/docenti l’Italia (12) è un po’ al di sotto della media UE (14) per quanto riguarda la scuola primaria ma è al di sopra della media rispetto alla scuola media ed invece ha lo stesso rapporto per la scuola superiore (12). Anche le ore effettive di lezione sono sostanzialmente comparabili tra i diversi sistemi scolastici. Ciò che li distingue è che in alcuni paesi vengono formalmente quantificate anche le ore per le altre attività complementari alla docenza (quelle relative alla programmazione didattica, alla preparazione delle lezioni) mentre in altri paesi (come l’Italia) queste attività vengono egualmente svolte ma non sono (o solo in parte) definite.

    Le differenze più evidenti tra i docenti dei diversi paesi emergono confrontando gli aspetti retributivi. Le retribuzioni dei docenti italiani (35.900 dollari) sono molto al di sotto tanto della media UE (44.204) che della media OCSE (44.407 dollari). Inoltre in questi anni di crisi economica le ripercussioni per gli stipendi dei docenti non sono state ovunque le stesse. In alcuni paesi le retribuzioni sono diminuite (tra questi l’Italia con -6,7%), in altri invece sono addirittura aumentate (tra questi la Germania con +3%).

    La perdita per gli stipendi italiani è stata consistente anche per effetto del blocco contrattuale che si protrae dal 2009. La retribuzione media è passata dagli oltre 31.000 euro del 2009 ai 29.000 euro del 2015, per una perdita reale consistente di quasi il 7%. A questa perdita assoluta, va aggiunta quella relativa in rapporto all’inflazione, che per quanto bassa in questi stessi anni è stata di oltre il 9%. Un altro elemento che differenzia le retribuzioni dei docenti italiani dal resto del mondo sono le dinamiche di carriera basate sull’anzianità di servizio (meccanismo questo presente in molti paesi). Al massimo della carriera l’incremento medio è del 62% in ambito UE, in Italia invece è del 49%. Inoltre per raggiungere il massimo della carriera mediamente occorrono 24 anni di servizio, per l’Italia invece ne occorrono 35.

    Per concludere un riferimento alla spesa per l’istruzione in rapporto al PIL: l’Italia spende molto meno rispetto ad altri Paesi, ovvero il 3,7% rispetto al 4,7% della media UE. Per colmare questa differenza occorrerebbe aumentare almeno di un punto di PIL le spese dell’Italia per l’istruzione (ovvero 17 miliardi di euro).

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    Convegno FLC CGIL 12 luglio 2017Il faccia a faccia, coordinato da Massimiliano De Conca, docente dell’IIS Carlo d’Arco e Isabella d’Este” di Mantova, ha visto un dinamico scambio di domande tra Francesco Sinopoli, Segretario generale FLC CGIL e Valeria Fedeli, Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

    La prima domanda è: non è che gli stipendi dei docenti italiani, fra i più bassi nel mondo, si pensa siano adeguati perché tanto l’82% della categoria è costituito da donne? Quanti soldi è disponibile ad investire lo Stato per questo rinnovo contrattuale?

    Fedeli

    Quanti soldi? Tanti quanti ne hanno sottoscritti CGIL CISL e UIL nell’accordo del 30 novembre del 2016.
    Ma voglio articolare meglio la risposta, visto che siamo in una sede molto seria e non mi siedo su questi banchi da cinque anni, anzi sono un pochino emozionata.
    Considero importante la riflessione di questa mattina e considero qualificante partire proprio dalla “funzione docente” perché questo deve essere il punto centrale del dibattito del paese.
    Chi ha presentato i dati ha specificato sono pochi gli uomini insegnanti e “sono relegati nelle scuole superiori”; c’è una parte di verità. Non c’è dubbio che storicamente si è pensato che minore qualificazione, vedi infanzia o primaria, corrisponda a requisiti meno professionali e più “naturali” a caratteristica delle donne, in quanto si tratta di bimbi di minore età. Non è così per i titoli di studio “più alti”, più corrispondenti a gradi di scuola come medie e superiori.
    Questo è il primo limite che impedisce di considerare che ogni rapporto educativo dallo zero fino all’educazione permanente, è competenza, professionalità, studio e aggiornamento; la docenza è una professionalità, non una missione, tra le più importanti, perché strettamente collegata alla crescita qualitativa e allo sviluppo del paese.
    A questa non-considerazione di importanza per i docenti, va ricondotta anche la scarsa retribuzione, senza però dimenticare un tema generale quando si parla di stipendi, cioè che siamo nel paese della tassazione e anche il cuneo fiscale va tenuto in considerazione.

    Per tornare alla domanda, considero molto importante l’accordo del 30 novembre per alcuni contenuti:

    1. è già stata stabilita la cifra media, anche se ci sono temi aperti come quello su quanto potrà pesare il bonus fiscale degli 80 euro. C’è poi il rapporto legge-contratto, che aprirà il confronto su quali materie potranno essere negoziabili, anche per sviscerare la questione del reperimento delle risorse.
    2. Gli investimenti: la retribuzione dei docenti è bassa in rapporto agli altri paesi europei. L’ho detto anche nella mia comunicazione di insediamento alla Camera del 26 gennaio scorso e ne sono convinta. Se si vuole dare davvero un rilancio a tutto il processo di istruzione e formazione, l’aggancio è sulla qualità e sulle retribuzioni. Occorre investire sulle retribuzioni, per innalzare la considerazione sociale e per evitare anche che si possa configurare l’insegnamento come un ripiego, a pari livello di studio, rispetto ad altre opportunità lavorative più remunerate.
    3. Dopo l’atto di indirizzo che, anche per volere dei sindacati sarà semplificato, partirà quindi un confronto proprio sulle priorità dall’intesa, che però va rispettata.

    Penso non sia ancora matura in questo Paese, l’idea che l’investimento più importante va fatto sui percorsi formativi e di istruzione: considero, invece, l’investimento sul capitale umano come un aggiornamento di lettura e traduzione dei processi di politica nazionale.
    Si fa fatica a cogliere questo, ma la costruzione di una società e di una economia della conoscenza sta proprio nell’innovazione e nell’investimento “di valore”, che dovrà essere soprattutto e strategicamente un passaggio di consapevolezza. Anche con gradualità, ma tutti i cambiamenti vengono da lì.

    Sinopoli

    I dati OCSE hanno certificato quanto da tempo abbiamo denunciato: i docenti italiani sono pagati male rispetto agli altri docenti dei Paesi avanzati e dal 2009 ad oggi hanno perso in media 220 euro mensili. Mi si chiede se ciò sia anche legato alla composizione femminile della docenza delle nostre scuole? È un tipico fenomeno culturale, quello della persistenza di un comportamento anche quando le condizioni materiali sono cambiate: perché è vero che fino a tutti gli anni 70 del secolo scorso il sentire comune vedeva nel lavoro docente un tipico impiego femminile da pagare anche poco dal momento che si lavorava mezza giornata e la donna si poteva dedicare alla famiglia. Con la chiosa aggiuntiva che poi si hanno due mesi di ferie.
    L’opinione pubblica è portata a pensare, anche dai media, che dal giorno in cui i ragazzi non vanno a scuola, la scuola è chiusa. E notoriamente non è così. Perché, ecco, quel senso comune è una falsa opinione: il lavoro docente assorbe ormai tutta la giornata e fra esami e altre incombenze di fatto si lavora per 11 mesi all’anno. E, nonostante ciò, questa vulgata continua a tenere banco. La realtà è cambiata a partire almeno dagli anni 80 ma noi crediamo che ai Governi, a chi gestisce il potere, a chi possiede il potere anche comunicativo faccia comodo continuare con queste falsità imputando subdolamente per questa via alla composizione femminile della categoria una parte della responsabilità di tale stato di cose.
    L’imminente avvio delle trattative per il rinnovo contrattuale, bloccato dal lontano 2009, rappresenta un’occasione formidabile per fare un’operazione di giustizia e di verità. Anche sull’orario dei docenti e sui suoi impegni perché i docenti italiani lavorano come e talora di più in termini orari dei loro colleghi europei. E lo vogliamo dire attraverso il contratto.
    Confidiamo nel fatto che il Governo, dinanzi alla muta eloquenza di questi dati, faccia la sua parte e metta a disposizione le risorse necessarie e allinei gli stipendi dei docenti italiani a quelli dei loro colleghi di area Ocse. Non è solo questione di redditi ma di dignità della professione docente. Perciò, occorre colmare quel divario rilevantissimo che purtroppo esiste anche tra l’Italia e la media europea riguardo agli investimenti pubblici in istruzione. Un gap di più di 1 punto percentuale che fa la differenza (circa 17 miliardi di euro) e che marca la distanza tra un paese declinante e uno che invece investe in conoscenza per aprire le porte del futuro.

    La seconda domanda è sulla chiamata diretta: il recente contratto sulla mobilità ha reso trasparente e oggettiva la procedura che lo scorso anno, in forza della legge 107/15, era nella totale discrezionalità del dirigente. Visto che il CCNI mobilità sta dando esiti positivi c’è la volontà di superarla definitivamente con il prossimo CCNL a tutela della libertà di insegnamento?

    Sinopoli

    Su questo argomento parlano i fatti. L’anno scorso, senza addivenire ad un accordo con le organizzazioni sindacali, l’algoritmo e il delirio di una chiamata discrezionale affidata al dirigente scolastico hanno creato il caos. Quest’anno, dopo aver sottoscritto un contratto che ha dato una regola e ha ripristinato le prerogative del Collegio dei docenti, le cose stanno andando meglio. Soprattutto perché è stata ripristinata la possibilità di scegliere, come sempre avvenuto, la scuola che si desidera prima di essere assegnati ad un ambito.
    Ma noi pensiamo che occorra andare oltre, sempre per via contrattuale: e l’orizzonte non può che essere la fine totale di un meccanismo quale è quello della chiamata diretta. Perché esso, secondo noi, si basa su di un presupposto sbagliato: che i docenti italiani debbono meritarsi la chiamata sulla base di competenze che in realtà tutti i docenti già posseggono in quanto già selezionati dalla laurea specialistica e dai concorsi.
    E poi noi siamo convinti di un fatto: che a regime un tale meccanismo sarebbe portatore di derive personalistiche e clientelari che è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Per non parlare del fatto che i docenti non scelti sarebbero destinati tutti nelle scuole più difficili dove in realtà avremmo bisogno dei docenti migliori. E poi, dobbiamo ricordarci che nella pubblica amministrazione principio assoluto che va rispettato è l’imparzialità dell’amministrazione che va ripristinata in toto.

    Fedeli

    Non è stato semplice, ma l’insieme dei sindacati della categoria ha fatto una scelta che ho apprezzato, fin dal termine del 2016, di avviare un confronto che, per quanto riguarda la mia responsabilità di ministra, ha portato alla condivisione dei problemi.
    L’analisi ha consentito di trovare punti utili di intesa, nel rispetto reciproco di posizioni e responsabilità distinte, ma scegliendo le cose che possono risolvere le questioni. È un metodo serio.
    Lo dico perché la “chiamata diretta” presuppone una grande e vera discussione sulla funzione educante della scuola, ma anche sulle funzioni dentro la scuola.
    Quando si vuole consolidare l’autonomia scolastica e la libertà di insegnamento, ci sono funzioni differenti che vanno esercitate nei ruoli diversi e all’interno dei corretti profili normativi.
    La funzione dei dirigenti è già scritta: il problema è come la eserciti e all’interno di quali regole. Con l’intesa, abbiamo rimesso al centro i Collegio dei docenti e io tenderei a valorizzare quanto è stato scritto insieme.
    Abbiamo reso un servizio di trasparenza nelle operazioni, e questo va letto come recupero di uno dei punti più critici nel dibattito pubblico, nonché oggetto di tensioni dentro le scuole, che sono comunità educante che necessitano di condizioni di benessere.
    Il MIUR tiene monitorati i processi e questo è importante.
    Quando discuteremo il rapporto tra legge e contratto, un conto sono le risorse, altra cosa sono gli ordinamenti delle strutture. Lo dico per serietà, ma su questo il punto fermo c’è già: ci confronteremo su come si esercita la funzione, ma altra cosa e è non riconoscerne le responsabilità.
    Sulla “chiamata diretta” è stato fatto un lavoro egregio, quindi non solo un valore aggiunto, ma proprio un modello.

    La terza domanda è sui fardelli burocratici che la scuola e gli insegnanti sono chiamati a portare: da questa continua richiesta di lavoro esce trasfigurato il ruolo del docente, che, da punto di riferimento un tempo per un intero tessuto sociale, oggi viene caricato da ogni sorta di responsabilità. Il contratto che stiamo per rinnovare come potrà restituire importanza sociale al ruolo dell’insegnante che non può essere banalizzato dal bonus premiale e dalla card docente?

    Fedeli

    Ho un’opinione differente: perché c’è stata una svalorizzazione, della funzione professionale e sociale del docente?
    Si è determinata una non-necessità della qualità degli apprendimenti, per cui non era necessario che l’istruzione rispondesse in termini di qualità degli insegnamenti.
    Su questo, è avanzata una campagna pubblica su più fronti, che amplificando anche taluni episodi negativi, ha consentito un’invasione di campo sulla autorevolezza non solo del docente, ma di tutto il personale della scuola. Una frattura tra il ruolo dei docenti e i genitori, i quali contribuiscono, certamente, alla delegittimazione dei docenti, non comprendendo loro stessi i percorsi formativi dei figli.
    Che fare? Il punto su cui si può rilanciare, e la CGIL è attenta a questo, oltre ai temi del rinnovo contrattuale, deve essere quello del cambio radicale sulla digitalizzazione, che è un fenomeno che occorre approfondire, perché diverso dalle altre rivoluzioni tecnologiche.
    I bambini hanno competenze elevate già quando arrivano ad affrontare il percorso scolastico. La digitalizzazione ha cambiato il sistema di formazione e informazione, ma non solo: ha cambiato la natura delle relazioni e il modello cognitivo, per cui i docenti devono essere messi nelle condizioni di apprendere modelli differenti da quelli su cui si sono formati e competenze innovative che non hanno mai avuto.
    Poi so che Francesco Sinopoli ha opinioni differenti e ci confronteremo, ma alcune questioni poste nella legge 107/15 sono importanti e di prospettiva, proprio nella logica della rivalutazione del consenso e del riscontro sociale della figura del docente.
    E senza tutto questo, sarà difficile arrivare ad un riconoscimento di tipo economico, perché non si fa tutto col contratto.

    Sinopoli

    Proviamo a fare un elenco delle cose che vengono richieste alle scuole, un elenco sicuramente parziale: educazione ambientale, alla salute, all’alimentazione, alla legalità, all’economia, e poi educazione stradale, interculturale, contro il razzismo. E potremmo continuare. Ora il fatto è che non è che la scuola si debba sottrarre a tali compiti. Anzi, gli insegnanti per certi versi si sentono gratificati di essere chiamati ad affrontare questi problemi.
    Ma la questione vera è: si può pensare di sovraccaricare la scuola di funzioni che già di per sé fanno parte del suo dna educativo ma con in più la chiamata di corresponsabilità per tutte le cose che nella società non vanno bene? Ora il fatto è che la scuola può fare la sua parte ma non può farsi carico di tutti i fallimenti della società.
    Perché per affrontare questi problemi ci vuole una società e una politica che alla scuola sappiano chiedere cose appropriate e con rispetto. L’una cosa e l’altra non ci sono. Si chiede troppo e non si chiede con cura e rispetto. Anzi si colpevolizza la scuola e cioè l’insegnante.
    Cosa possiamo fare con il contratto? Per esempio, mettere fine al progettificio per bandi: tutte le risorse vengano date all’inizio dell’anno scolastico e la scuola ne decida la destinazione; investire molte più risorse nelle scuole ubicate in zone difficili del paese; restituire la formazione in servizio alle scuole perché solo a quel livello si conoscono le esigenze dei contesti culturali in cui ci si trova ad operare; innalzare le retribuzioni per avvicinarsi progressivamente ai Paesi Ocse; eliminare dalla scuola tutte le incombenze che non sono scolastiche: le segreterie e gli insegnati si devono occupare solo di fatti scolastici; restituire agli Ambiti Territoriali e agli USR una loro funzione di supporto, perché le scuole dell’autonomia quando nacquero nel 1999 avrebbero dovuto beneficiare di un supporto territoriale didattico (CSI - Centri di servizio interscolastico) e di un supporto territoriale amministrativo (CSA) e nulla di tutto questo è stato fatto; restituire funzionalità ai servizi territoriali che invece sono stati smantellati con la conseguenza che tutte le loro incombenze sono state scaricate sulle scuole.
    Sarebbe un modo per de-burocratizzare il lavoro docente: ormai per ogni cosa si riempiono carte. Un vasto programma sarebbe: eliminiamo le carte burocratiche dal tavolo docente e restituiamolo alla didattica.

    La quarta domanda è sulla valutazione individuale: a cosa serve, se serve, la valutazione individuale del docente in un contesto cooperativo e condiviso come è, o almeno dovrebbe essere, il sistema “scuola”? E in che cosa è preferibile invece, se è preferibile, rispetto ad un’idea di valorizzazione non competitiva della professionalità docente?

    Sinopoli

    Rifiutiamo, senza timore di essere accusati di conservatorismo, l’ideologia della valutazione che è funzionale ad un modello di scuola collocata in un sistema di quasi mercato dove grazie alla competizione individuale e tra scuole grazie alle “classifiche” si creano le condizioni per migliorare. Non è così. Noi vorremmo partire dalle esperienze fatte e dagli errori commessi nel passato per immaginare altri tipi di valorizzazione del lavoro docente. Riconoscere le competenze, i carichi di lavoro, la formazione è altra cosa.
    Ferma restando la progressione per scatti di anzianità, si potrebbe immaginare una valorizzazione che parta da un apprezzamento di ciò che si fa a scuola, sulla base di elementi oggettivi – non come avviene oggi con genitori e studenti nel comitato di valutazione – e far acquisire nel tempo per tutti ma con tempi differenziati o un’accelerazione degli scatti o una riduzione del lavoro frontale.
    Ma sia chiaro: se non si stanziano risorse aggiuntive e dedicate a tale scopo e se ci dobbiamo muovere dentro i margini delle risorse che vengono stanziate per questo contratto difficilmente si potranno fare passi avanti in questa direzione. Anzi è impossibile.
    Noi siamo disponibili a partire dai risultati della commissione articolo 22 del contratto del 2002, come ci ha ricordato il Prof. Ricciardi questa mattina, ma solo a partire da una risorsa specificamente dedicata.

    Fedeli

    Sono contro le ideologie, contro le narrazioni e contro, da progressiva e di cultura di sinistra, chi pensa che gli obiettivi da raggiungere non debbano essere misurati.
    Penso che la valutazione sia il terreno più progressista che ci sia, perché chi si sottrae, implicitamente dichiara che non gli interessa l’obiettivo da perseguire; ma siccome per il docente gli obiettivi sono gli studenti, da qui deriva il ruolo della professionalità docente nella misura dei suoi risultati e della sua funzione.
    Il merito è superare ogni barriera all’accesso, e portare ciascuno sulla base delle proprie possibilità, quindi tempi e differenze da tener conto. I ragazzi e il loro apprendimento sono l’obiettivo, è quindi impensabile che non ci sia una valutazione collettiva dove sia misurabile l’apporto della responsabilità individuale. I docenti sono una comunità educante e sono forti della loro identità.
    Chi si sottrae a questo? Nessuno. Noi diciamo “troviamo i criteri” e discutiamo di obiettivi
    Chi si sottrae alle valutazioni, vuole attuare un modello di autonomia che nulla c’entra con un necessario processo di trasparenza. Penso sia un errore.
    Esistono tante realtà in cui si è valutati.
    Qualificare la scuola è anche agganciarla a modelli di tipo europeo, dove si prevede la valutazione, per partecipare al raggiungimento di un risultato. Si tratta di definirne i criteri, ma non a rigettarli.
    Potrebbe essere un aggancio ai sistemi europei scolastici, che è un motivo per arrivare a nuovi e maggiori investimenti, sostenendo in primis le figure che stanno dentro la scuola.
    Ma il confronto deve essere sul merito e non ponendo uno steccato.

    La quinta domanda è infine sulla formazione in servizio: possiamo ripensarla, anche nell’ottica del rinnovo del contratto?

    Fedeli

    Penso che l’obbligatorietà sia una parte della formazione professionale, che deve essere continua.
    Bisogna tenere in equilibrio l’autonomia di insegnamento con le necessità innovative, sulle quali si farà un aggiornamento dei fabbisogni, per rendere il MIUR capace di sostenerne i contenuti e strumenti.
    C’è bisogno di formazione permanente, perché le competenze di accesso dei docenti incontrano la necessità di un processo di evoluzione rispetto, soprattutto, ai temi innovativi.
    Questo è un tema poco valutato al MIUR negli scorsi anni, perché non si guardava ai contenuti e alla trasversalità delle competenze da dare agli studenti, che cambiati i tempi, hanno ora bisogno di sviluppare nuove skills.
    Il tema della formazione non è solo della scuola, ma è aperto a tutto il mondo del lavoro e comune a tutti i settori e ovunque, se non viene adeguatamente affrontato, porta il lavoratore a non svolgere al meglio la propria funzione professionale, se non addirittura al rischio di essere marginalizzato o espulso.

    Sinopoli

    Il personale tutto, compresa la dirigenza scolastica, ci segnala che con il Piano nazionale di formazione previsto dalla legge 107/15 effettivamente si sta ripetendo uno schema “forzato”, uno schema già praticato in passato e che costituisce una forzatura. Infatti, cosa sta accadendo? Che si costruiscono a forza le reti di scuola per la formazione, che si intimidiscono i presidi con la valutazione per cui devono forzare i collegi ad aderire alla formazione imposta in questo modo, si inviano loro dei soldi dedicati alla formazione da spendere in tempi stretti e con modalità di rendicontazione che risalgono agli anni 80 del secolo scorso. Una modalità imposta dall’alto, centralistica, forzata e subita dalle scuole e dalla docenza come una vera e propria costrizione. Così non funziona.
    Secondo noi occorre rovesciare lo schema. Innanzitutto bisogna ricondurre tutta la tematica in contrattazione perché la formazione in servizio si deve fare, certamente come obbligo, ma è altrettanto certo che essa è materia eminentemente contrattuale e la si declina in contratto. Poi bisogna inviare i fondi alle scuole ed esse, se vogliono, si organizzano in rete. Infine le istituzioni scolastiche, organizzate o meno in rete, dedicano la maggior parte delle risorse alla ricerca/azione, come miglior modo di fare formazione: cioè riflettere e socializzare le buone pratiche. Noi siamo, infatti, convinti che occorra pensare al docente come un intellettuale collettivo, come un intellettuale riflessivo capace di mettere in comune i saperi e i problemi che maturano sul campo con l’esperienza professionale. E bisogna pensarlo come ricercatore e sperimentatore dei processi che mette in campo per corrispondere al meglio alle situazioni concrete e ai problemi didattici ed educativi concreti che la vivacità degli studenti e degli alunni di volta in volta creano. E poi si debbono eliminare gli aspetti burocratici e le tempistiche di svolgimento che debbono avere a riferimento i tempi della scuola e non i tempi della burocrazia.

    Convegno FLC CGIL 12 luglio 2017Franco Martini, Segretario nazionale CGIL, ha concluso i lavori della giornata. Ha esordito ringraziando la Ministra per la sua partecipazione, ricordando che nella sua esperienza in CGIL era tra le maggiori fautrici della cultura dell’accordo sindacale. Per marcare la presenza della confederazione alla nostra iniziativa, Martini, lancia tre messaggi.

    Il primo messaggio è: vogliamo fare il contratto. Non solo per gli aumenti e per il rispetto dell’intesa del 30 novembre. Soprattutto per rimarcare il ruolo della conoscenza e della cultura come leva per lo sviluppo. Dobbiamo ribaltare i paradigmi: non vogliamo una scuola all’altezza quando saremo fuori dalla crisi, ma una scuola di livello è una condizione per uscire dalla crisi. La battaglia alle disuguaglianze si combatte attraverso la salute e l’istruzione pubbliche. Il secondo messaggio è: vogliamo rinnovare il contratto per cambiare la pubblica amministrazione. Dobbiamo combattere il luogo comune che descrive i pubblici dipendenti come fautori della conservazione. Non è così: noi siamo per l’innovazione. Vogliamo cambiare la scuola attraverso il contratto anche per sanare il vulnus delle “riforme” imposte dall’alto. Non si può cambiare contro gli operatori del settore: occorre confronto e coinvolgimento. Si deve anche superare l’idea che la spesa pubblica sia un costo: l’istruzione e la ricerca sono un modo per produrre ricchezza. Il terzo messaggio è: vogliamo iniziare la contrattazione prima possibile. Vogliamo un atto di indirizzo snello e in tempi rapidi. Vogliamo incassare al più presto i contenuti dell’intesa del 30 novembre. Ed in particolare intervenire profondamente nel rapporto tra legge e contratto.

    In conclusione Martini ha rivolto un incitamento alla nostra categoria e alle altre del pubblico impiego: dobbiamo tenere alta l’attenzione per i contratti del pubblico impiego. Organizziamo discussioni nelle Camere del Lavoro e ai vari livelli dell’organizzazione: tutta la CGIL deve essere in campo per il nostro rinnovo contrattuale.